Questa settimana, il Tesoro ha emesso BTp in dollari per 3 miliardi, ricevendo ordini per 9,3 miliardi, oltre 3 volte superiori. L’offerta iniziale era stimata in 2,5 miliardi, ma evidentemente il buon riscontro sui mercati ha indotto il Tesoro ad aumentarla. La scadenza è stata fissata per il 17 febbraio 2026, per cui il bond è un quinquennale. Quanto alla cedola, è dell’1,25% fissa annua, mentre il prezzo di collocamento è stato di 99,638, un po’ sotto la pari, per cui il rendimento alla scadenza è risultato essere dell’1,322%. Considerando che sui 5 anni a malapena il BTp in euro offre poco più di zero, siamo dinnanzi a una buona opportunità di investimento e di diversificazione del portafoglio, pur a fronte di un rischio di cambio da tenere in debita considerazione.
Ecco il BTp febbraio 2026 in dollari, conveniente per chi?
Perché il Tesoro ha voluto emettere un nuovo titolo in valuta americana, quando può rifinanziarsi a costi molto più bassi in euro? Per due ragioni: diversificare le fonti di approvvigionamento dei capitali, puntando sul mercato americano; scommettere sul cambio e sperare che l’indebolimento del dollaro da qui alla scadenza sia almeno non inferiore all’extra-costo sostenuto.
Gli investitori americani sono anch’essi a caccia di rendimento negli ultimi mesi. I Treasuries sono andati a ruba con l’emergenza Covid e i rendimenti lungo la curva sono scesi ai minimi storici. Il decennale oggi offre meno dello 0,90%, a fronte di quasi l’1,90% ad inizio anno. Tuttavia, dai risultati del collocamento emerge una verità molto diversa da quella che ci immaginavamo: gli ordini arrivati dalle Americhe, per cui non soltanto dagli USA, hanno inciso per appena il 18% del totale. Per il 67% sono arrivati dalla stessa Europa, di cui il 21% dagli investitori istituzionali italiani, per il 7% dal Regno Unito, il 7% da Medio Oriente e Africa e 1% dall’Asia.
Gli effetti possibili sul trading del bond
Cosa significa tutto ciò? Che i BTp in dollari non hanno fatto gola agli americani per inserirli in portafoglio e accrescere la “yield” media.
Il fatto, invece, che per la quasi totalità i BTp in dollari siano finiti nei portafogli di investitori non americani ci induce a ritenere che questi titoli saranno abbastanza scambiati con il trascorrere del tempo. E questo sarebbe da un lato un rischio, nel caso in cui prevalessero le vendite man mano che il dollaro s’indebolisse, dall’altro un’opportunità per via della maggiore liquidità degli scambi. Quanto, poi, alla natura degli investitori, per il 38% si è trattato di fund manager, il 30% di banche, 13% banche centrali e altre istituzioni governative, 13% assicurazioni e fondi pensione, 3% fondi speculativi e 3% altro. Anche qui, siamo in presenza di una forte componente apparentemente non cassettista, quali sarebbero i fondi e le banche. A conferma di quanto sopra scritto, cioè che i BTp in dollari saranno verosimilmente molto compravenduti da qui alla scadenza.