Il Tesoro per quest’anno ha in programma un ritorno alle emissioni di BTp in dollari per la prima volta dal 2010. Per il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sarebbe un modo per diversificare le fonti di approvvigionamento dei capitali, allargando la base tra gli investitori americani. In circolazione, al momento abbiamo solamente due BTp denominati in dollari USA. Uno scade nel 2023 e l’altro nel 2033. In entrambi i casi, si tratta di bond collocati ai tempi sul mercato come trentennali.
La durata del finanziamento si rivelerà importante ai fini del costo dell’operazione. Emettendo debito in una valuta straniera, il Tesoro si assume un rischio di cambio che non avrebbe modo di controllare, se non assicurandosi con appositi contratti “swap”. Se il dollaro dovesse rafforzarsi alla data prevista per il rimborso rispetto a quella di emissione, l’Italia si ritroverebbe a corrispondere agli obbligazionisti un capitale in euro che le costerebbe di più, dopo avere staccato in loro favore cedole verosimilmente già più sostanziose di quelle previste per le emissioni in euro. Infatti, per attirare investitori americani, abituati in questa fase a rendimenti superiori a quelli in vigore nell’Eurozona e nella stessa Italia, risulta necessario ingolosirli con un premio rispetto ai Treasuries di pari durata.
Fino a qualche giorno fa, davamo più probabile un deprezzamento del dollaro verso l’euro, a seguito dell’allentamento monetario in corso negli USA. La Federal Reserve, tuttavia, ha segnalato che il taglio dei tassi varato mercoledì non sarebbe il primo “di una lunga serie”, un fatto che induce alla prudenza, sebbene da ieri siamo alle prese con l’analisi delle conseguenze dei dazi americani contro la Cina. Se effettivamente il dollaro dovesse mantenersi stabile o persino rafforzarsi nel medio-breve termine, le emissioni di BTp in esso denominati difficilmente sarebbero di breve durata, altrimenti il Tesoro rischierebbe di addossarsi un costo superiore a quello che sosterrebbe con le consuete emissioni in euro.
Ecco perché per i BTp in dollari saremmo a rischio default, ma restando nell’euro
Che tipo di emissione e quali rischi
Se si optasse per emissioni a lungo termine, va detto il cambio da qui a 20 o 30 anni non sarebbe prevedibile, per cui si correrebbero ugualmente rischi in fase di rimborso. Per questo, probabile che alla fine o il Tesoro decida di rinviare il collocamento o punti a una scadenza medio-lunga, magari decennale, ossia un arco di tempo sufficiente per prevedere un rafforzamento dell’euro abbastanza verosimile. Se il dollaro si rafforzasse nel breve, però, ugualmente l’impatto sul debito pubblico italiano sarebbe negativo in una prima fase, perché la Banca d’Italia sarebbe costretta mensilmente a rivalutare il bond sulla base dell’andamento del cambio euro-dollaro, per cui il Tesoro si ritroverebbe sia a registrare uno stock in crescita per l’effetto cambio, sia a corrispondere ai creditori cedole più alte.
Facendo la media delle due scadenze in dollari finora esistenti, dedurremmo che il rendimento da offrire per un decennale si aggirerebbe in area 3,50%, pari a un premio di circa 160 punti base rispetto all’omologo Treasury. Per un investitore italiano, non avrebbe senso puntarvi, visto che il tasso di deprezzamento cumulato atteso per il dollaro contro l’euro nel periodo sarebbe di oltre il 23%, stando allo spread Treasury-Bund odierno, ma anche ai contratti “forward”, mentre il rendimento extra rispetto al decennale in euro sarebbe inferiore al 2% annuo.
Aldilà del fattore costo, l’obiettivo di Tria consiste nel consolidare i legami con mercati esterni all’Eurozona e per questo l’operazione potrebbe ripetersi in valute diverse, dalla sterlina allo yen.
Italia a rischio di uscita dall’euro o di ristrutturazione del debito?