I rischi
Detto ciò, quanto sta accadendo negli ultimi anni appare ormai un’anomalia. Nel 2014, Bloomberg calcolava in mille miliardi di dollari la liquidità impiegata dalle maggiori 500 società di Wall Street per il “buyback”, ovvero il 95% dei loro utili. Dagli inizi del 2009 ad oggi, le risorse investite per il riacquisto di azioni sono aumentate di oltre il 300%. Perché il fenomeno, quando è così dilagante, è negativo? Perché da un lato riflette una mancanza palese di alternative avvertita dalle società con riferimento alla ricerca di investimenti.
La timida inversione di tendenza
Alla lunga, proprio perché rendono più difficili le scalate, che disciplinano il mercato, un uso in larga scala potrebbe portare a una minore efficienza gestionale delle società quotate, le quali anziché cercare di aumentare il valore aziendale con azioni rivolte al contenimento dei costi e alla massimizzazione degli utili, puntano a chiudersi e finanche a coprire la propria inettitudine. Vero è, d’altra parte, che senza il “buyback” vi sarebbero maggiori risorse da destinare alla distribuzione degli utili, per cui i corsi salirebbero ugualmente, almeno fino a un certo punto, ma l’intervento diretto delle società per ridurre il valore complessivo di capitalizzazione in borsa è in sé preoccupante, specie se esso avviene con operazioni a debito, che esporrebbero la società al rischio di oneri non del tutto previsti nell’attuale fase di rialzo dei tassi americani. Per fortuna, negli ultimi mesi le cose stanno cambiando. Una timida inversione di tendenza è già in atto, come ci dimostra proprio l’indice S&P 500 Buyback sopra presentato. Su base annua, esso è in calo del 12,4% e del 2,5% dall’inizio del 2016, ovvero più di quanto non abbia ceduto l’S&P 500 nei 12 mesi, anche se un po’ meno dall’1 gennaio (-3%).