Michela è una delle lavoratrici del Call Center di Taranto, di recente finito nel mirino della critica per aver elargito in busta paga uno stipendio di 90 euro al mese. Una somma che porta la tariffa oraria a 33 centesimi. Il caso è scoppiato dopo che le dipendenti del call center si sono rivolte al sindacato, attraverso il quale si è proceduto con un esposto contro l’azienda inviato alla Procura della Repubblica, al Prefetto, al Sindaco e al Presidente della Provincia. Intervistata dall’agenzia Adnkronos, Michela ha fornito ulteriori dettagli su quanto accaduto a lei e alle sue colleghe, che hanno deciso di licenziarsi non appena hanno visto la loro busta paga di 92 euro per un intero mese di lavoro.
“Pagamento a 60 giorni”
La lavoratrice del call center di Taranto ha raccontato quella che è stata la sua esperienza dopo un solo mese di lavoro. Il suo compito era di vendere i pacchetti di internet e telefonia per 6 ore al giorno. Dopo un mese l’amara sorpresa, con la busta paga da 92 euro al mese. Soldi che, tra le altre cose, Michela non riceverà, in quanto il pagamento – come ha riferito durante l’intervista ai colleghi di Adnkronos – è a 60 giorni, nonostante nel contratto ci sia scritto a 30. Oltre il danno la beffa dunque.
La ragazza, madre di due figli, ha sostanzialmente confermato le parole del sindacalista Andrea Lumino, segretario generale di SLc Cgil Taranto. Alle rimostranze delle dipendenti, l’azienda ha risposto che si perdeva un’ora di lavoro per 3 minuti di ritardo all’arrivo al lavoro oppure per un’assenza pari a 5 minuti dalla propria postazione per andare in bagno. Il sindacalista ha confermato l’intenzione di usare la legge contro il caporalato “per fermare questo sfruttamento”. Intanto, Michela dovrà aspettare gennaio per vedere corrisposti i 92 euro guadagnati in un intero mese di lavoro.
Lo stesso Lumino, riflette sul fatto che il settore del call center è malato. Ci sono leggi sfavorevoli e regole tutte da rivedere, “aziende che pensano al massimo risparmio disinteressandosi dell’ovvio e conseguente sfruttamento di chi lavora, l’anello più debole della catena”.
Questa vicenda evidenzia l’eterna precarietà in cui vive il settore e il conseguente disagio sociale che per forza di cose finirà per esplodere come una bomba ad orologeria.
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