Dopo il forte calo dei rendimenti sovrani nei mesi scorsi, stiamo assistendo a una parziale risalita tra la fine di dicembre e questo inizio di anno nuovo. Lungi dall’essere una vera inversione di trend, si tratta di una correzione abbastanza fisiologica. Chi possedeva titoli di stato, grazie al boom dei prezzi sta rivendendoli per monetizzare i guadagni virtuali delle scorse settimane o anche solo per limitare le perdite. Di certo c’è anche che la spesa per interessi a medio-lungo termine risulta già ridotta.
Spesa per interessi tendenzialmente giù da ottobre
Il Rendistato della Banca d’Italia ci fornisce ogni mese il rendimento medio dei nostri titoli di stato, ponderati per il loro peso. Otteniamo che a dicembre esso è sceso al 3,48% dal 4,045 di novembre e ben sotto il 4,444% di ottobre. Siamo tornati ai livelli più bassi da settembre del 2022, quando la Banca Centrale Europea (BCE) era ad inizio ciclo monetario restrittivo. In due mesi, quindi, il rendimento medio dei BTp risulta essere sceso di circa l’1%. E questo ha implicazioni forti sulla spesa per interessi potenziale.
Al 31 dicembre scorso, i titoli del debito pubblico emessi ammontavano a 2.394 miliardi di euro. Se li avessimo emessi tutti nel tempo ai tassi di ottobre, ossia al 4,444%, la spesa per interessi sarebbe salita ad oltre 106 miliardi all’anno. Ai tassi medi di dicembre, invece, si attesterebbe sugli 83 miliardi. Il risparmio si aggira intorno ai 23 miliardi annui. Parliamo di dati virtuali, perché non sappiamo quali effettivamente saranno i livelli medi di costo all’emissione di anno in anno. Considerate che il debito pubblico italiano ha scadenze medie di 7 anni e tanto è il tempo necessario perché l’intero stock maturi.
Sostenibilità debito pubblico, ecco un indicatore
In altre parole, non era detto che avremmo emesso tutti i BTp ai costi di ottobre e non è detto che lo faremo ai costi di dicembre. Nell’intero 2023, questi sono saliti al 3,76% dall’1,71% del 2022. Una bella botta per i conti pubblici. Il cosiddetto tasso implicito, ovvero il rapporto tra spesa per interessi e stock, si è portato al 2,84%. Dovete anche considerare che il Tesoro non solo si troverà a rifinanziare il debito pubblico in scadenza, bensì a farne di nuovo. Le emissioni nette attese per quest’anno sono stimate nell’ordine di una novantina di miliardi.
Questo fa sì che il costo del debito tenda a salire in valore assoluto anche quando i rendimenti restano invariati. Un indicatore della sostenibilità del debito è dato dalla differenza tra crescita del PIL nominale e tasso implicito. Se essa è positiva, il rapporto debito/PIL tende a scendere; se negativa, tende a salire. L’Italia nel quarto di secolo prima del Covid ebbe tale differenza sempre negativa, tant’è che il debito in rapporto al PIL crebbe fino al 135%. Essa divenne marcatamente negativa nel 2020 con il collasso del PIL reale e nominale e il rapporto schizzò fin quasi al 160%, mentre è tornata positiva successivamente, consentendo un abbassamento di questi a poco più del 140%.
Calo rendimenti non basta a far scendere debito/PIL
Tuttavia, il solo calo dei rendimenti non basta per ottenere automaticamente una riduzione del rapporto. Esso deve essere accompagnato da un avanzo primario stabile o crescente. In effetti, la spesa per interessi è una delle due voci che formano il deficit statale. L’altra è data dalla differenza tra entrate e uscite della Pubblica Amministrazione, al netto chiaramente proprio degli interessi sul debito. Tanto per darvi un’idea delle misure in gioco, se nel 2023 avessimo voluto chiudere il bilancio dello stato in pareggio, avremmo dovuto tendere a un avanzo primario al 4% del PIL, cioè di 80 miliardi di euro.