Ieri, il cambio euro-dollaro ha toccato un massimo “intraday” di 1,2210, il livello più alto dalla primavera del 2018. La spinta è arrivata dalla pubblicazione degli ultimi dati sul manifatturiero tedesco: a dicembre, l’indice vola a 58,6 punti dai 57,8 di novembre, mentre i servizi salgono da 46 a 47,7. L’indice composito migliora, dunque, da 51,7 a 52,5. La prima economia europea, pur in preda alle restrizioni per frenare i contagi da Covid, sembra marciare bene, cosa che sostiene l’umore sui mercati finanziari. A dire il vero, il cross si era apprezzato sin dall’ultimo board della BCE.
In teoria, l’annuncio avrebbe dovuto deprimere il cambio euro-dollaro, senonché le nuove previsioni macro diramate per il triennio prossimo hanno segnalato un maggiore ottimismo a Francoforte sulla ripresa dell’economia nell’Eurozona. Gli investitori ne hanno dedotto minori probabilità di un ulteriore allentamento monetario nei prossimi mesi. Per contro, la presidenza Biden a gennaio rischia di nascere senza una maggioranza certa al Senato, a meno che i democratici non vincano entrambi i seggi al ballottaggio in Georgia. E se la Casa Bianca non sarà in grado di sostenere l’economia americana con un piano fiscale potente, coerente ed efficace, la Federal Reserve dovrà fare ancora una volta la sua parte, aumentando gli stimoli monetari. Questa prospettiva chiaramente tende a indebolire il dollaro.
Peraltro, che la BCE possa essere arrivata al capolinea con gli stimoli lo sosterrebbe niente di meno che il suo ex governatore. Nel pubblicare un rapporto del cosiddetto G30, Mario Draghi ha lanciato l’allarme sui contraccolpi negativi che l’eccessiva liquidità sui mercati starebbe provocando. Tra l’altro, l’italiano ritiene che fiumi di denaro stiano arrivando nelle tesorerie di aziende “zombie”, destinate a fallire, che servano sostegni mirati e non generalizzati e che più che alimentare il debito, bisognerebbe optare per strumenti più efficienti sul piano della composizione del capitale.
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Stimoli BCE al capolinea?
Siamo dinnanzi a un paradosso. Draghi è stato il padre del “quantitative easing” e per questo avversato duramente dalla Bundesbank, che sin dal varo del programma ha eccepito che avrebbe incentivato l’azzardo morale tra i governi, dissuadendoli dal fare le riforme economiche richieste e spingendoli a indebitarsi ulteriormente, approfittando dei bassi costi di emissione. Draghi ha ignorato queste sirene fino all’ultimo giorno della sua presidenza, cioè poco più di un anno fa. Clamoroso che sia finito per dare ragione ai suoi detrattori, ma quel che si evince dalle sue parole è la preoccupazione crescente tra gli stessi ambienti dell’alta finanza e delle banche centrali sulle conseguenze a medio-lungo termine di politiche monetarie così sfrenate. Ci si sta quasi convincendo che si possa stampare tutto il denaro che serve per finanziare spese in deficit e senza conseguenze sull’inflazione e l’economia, in generale.
Il rafforzamento del cambio euro-dollaro non riflette, almeno per il momento, la consapevolezza del mercato che gli stimoli monetari siano arrivati al picco. Semmai, si ragiona in termini di prospettive rispetto alle precedenti previsioni. Ad avviso degli investitori, le probabilità che la BCE aumenti ulteriormente la liquidità si starebbero riducendo, ma nessuno sconta di certo un rientro dalle misure sin qui varate, almeno non fino ai primi mesi del 2022, quando scadrà il PEPP.
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