Cambio euro-dollaro ai massimi da fine 2014, avendo chiuso ieri a 1,206 e continuando a viaggiare sopra la soglia di 1,20 anche nel corso della seduta odierna, pur in lieve ripiegamento su base giornaliera. I dati macroeconomici nell’Eurozona si mostrano abbastanza forti. La ripresa economica nell’area si consolida e appare abbastanza diffusa sin dallo scorso anno, quando la moneta unica ha guadagnato quasi il 14% contro il biglietto verde, pur avendo aperto il 2017 con prospettive di un imminente raggiungimento della parità. Ad avere scaldato il cambio sono state anche le parole del membro esecutivo della BCE, Benoit Coeuré, secondo cui Francoforte cesserà gli acquisti di assets realizzati con il “quantitative easing” a settembre, tranne che l’inflazione nell’Eurozona non sorprenderà negativamente.
Adesso, i mercati starebbero scontando il primo rialzo dei tassi a partire dai primi mesi del 2019, ovvero già nell’ultima fase della presidenza Draghi. Questo non vuol dire, però, che da qui in avanti il cambio euro-dollaro registri un andamento lineare e improntato solamente al rialzo. Bank of America – Merrill Lynch è tra i pochi a mettere in guardia la clientela di quello che ritiene essere un probabile andamento a “U”, con il forex strategist Athanasios Vamvaidis a prevedere una discesa a 1,10 alla fine del primo trimestre, salvo una risalita a 1,19 a fine anno e a 1,25 entro il dicembre 2019.
I rischi sul cambio a breve
Secondo l’istituto americano, il cambio euro-dollaro potrebbe cedere per effetto di quello che in gergo si definisce “overshooting” del mercato rispetto ai dati, nel senso che i traders avrebbero più che scontato l’andamento dei principali indicatori macro. Non solo, perché BofA-ML ritiene anche che il mercato e gli analisti starebbero sottovalutando l’impatto positivo della riforma fiscale americana, anche attraverso il riafflusso di capitali dall’estero.
In effetti, Italia e Germania potrebbero deprimere i corsi dell’euro, così come dall’esterno anche eventuali sorprese da parte della Federal Reserve, che tra un mese cambia vertice con l’arrivo di Jerome Powell al posto dell’uscente Janet Yellen. La semplice sostituzione in sé non muterebbe il percorso della politica monetaria americana, ma a differenza di quanto avvenuto negli ultimi anni, il nuovo governatore potrebbe mostrarsi più “data dependent”, come da mandato della maggioranza repubblicana al Congresso, cosa che potrebbe spingerlo a valutare come necessaria una stretta meno lenta, dato che la disoccupazione risulta scesa al 4% negli USA e il pil dovrebbe crescere quest’anno intorno al 2,5%, mentre l’inflazione starebbe risalendo intorno al target. Certo, resta l’incognita Trump, che tutto vuole, tranne che il dollaro si rafforzi e colpisca le esportazioni made in USA.