L’anno scorso, quando la pandemia fece irruzione nell’Occidente, il cambio euro-dollaro sprofondò ai minimi dal 2017, scivolando sotto 1,07. Adesso, viaggia in area 1,22. Nel marzo scorso, era sceso a 1,17, allorquando l’Europa si trovava impantanata sulle vaccinazioni e le dosi somministrate negli USA e nel Regno Unito galoppavano di giorno in giorno.
Il cambio euro-dollaro è di estrema importanza per l’economia dell’Eurozona, basata sulle esportazioni. Esso è il cross valutario più importante al mondo e, pertanto, influenza sia l’andamento dell’economia, sia il tasso d’inflazione nell’area.
Cambio euro-dollaro al test BCE
Dopodomani, la BCE riunisce il board per la quarta volta nell’anno. Quasi certamente, manterrà invariato l’apparato degli stimoli monetari. Gli acquisti di bond con il PEPP saranno tenuti agli 80 miliardi di euro al mese, così come hanno garantito esponenti di spicco dell’istituto nelle scorse settimane, tra cui il governatore Christine Lagarde. E proprio il cambio euro-dollaro spinge i banchieri centrali dell’area a mostrarsi ancora per un po’ accomodanti. Se paventassero un ritiro, pur graduale, degli stimoli, il mercato inizierebbe a scontare un costo del denaro più alto e, in definitiva, un euro più forte.
L’inflazione a maggio nell’area è salita al 2%, ma quella di fondo è rimasta all’1%. Peraltro, essa è stata trainata essenzialmente dal boom dei prezzi energetici (+13,1%). E a loro volta, questi hanno risentito dell’impennata delle quotazioni petrolifere, le quali difficilmente si allontaneranno dai 70 dollari già raggiunti. In sostanza, l’inflazione nell’Area Euro potrebbe essere già culminata o in prossimità del culmine. Dopodiché, stando alle stesse previsioni di marzo della BCE, inizierà a rallentare e si terrà sotto il target per tutto il triennio.
Allo stato attuale, il cambio euro-dollaro avrebbe più probabilità di indebolirsi, anziché rafforzarsi nel breve e medio termine. La ripresa del PIL negli USA è vigorosa, tanto che già al termine di questo mese l’economia americana avrà recuperato le perdite accusate durante la pandemia. Nell’Eurozona, se tutto andrà bene, ciò accadrà verso la fine dell’anno prossimo. Inoltre, l’inflazione negli USA è salita al 4,2% già in aprile, mentre il tasso di disoccupazione è sceso a maggio sotto il 6%. Oggi come oggi, risulta più probabile che sia la Federal Reserve a dover alzare i tassi per prima. La BCE seguirebbe negli anni.
Le divisioni nell’Eurozona
Già prima della pandemia, la situazione era più o meno questa. Mario Draghi aveva espletato il suo mandato di ben otto anni senza avere mai alzato i tassi. Nel frattempo, la FED li aveva portati al 2,5% fino all’estate del 2019, salvo tagliarli nei mesi seguenti su pressione della Casa Bianca. Per non parlare del fatto che la BCE abbia un compito ben più gravoso, cioè di contemperare l’esigenza di centrare la stabilità dei prezzi nell’area con quella di non soffocare le economie più deboli di essa. La media dice tutto e dice niente. Il 2% attuale è dato dal 2,5% della Germania e dal -0,3% della Grecia (dato di aprile). In pratica, una parte dell’Eurozona resta in deflazione, un’altra teme il surriscaldamento eccessivo dei prezzi.
Ed ecco che a Francoforte il rischio di strafare sia percepito più basso di quello di fare troppo poco. Una politica monetaria tendenzialmente meno accomodante porterebbe all’apprezzamento del cambio euro-dollaro. A sua volta, esso spingerebbe ancora più in basso l’inflazione tra le economie deboli, intrappolandole nella deflazione. D’altra parte, senza alcun intervento l’inflazione correrebbe ulteriormente in stati come la Germania, ma appare difficile che ciò sfoci in una destabilizzazione dei prezzi tedeschi.