Ieri, il cambio euro-dollaro si è portato ben sotto 1,23, scendendo ai minimi da quasi due settimane, pur continuando a guadagnare circa il 2% dall’inizio dell’anno. I rendimenti decennali tedeschi, che fungono da riferimento per l’intera Eurozona, sono diminuiti in un mese dallo 0,64% allo 0,50%, ai minimi da tre mesi. E al contempo, anche quelli americani sono scesi in area 2,76%, per cui lo spread Treasury-Bund si aggira sopra i 225 punti base, ai massimi dalla caduta del Muro di Berlino, stabile su base mensile e in allargamento dai meno di 200 di inizio anno.
Cambio euro-dollaro, perché una discesa è possibile sui segnali di Treasury e Bund
Quanto sta accadendo si può riassumere nel modo seguente: l’inflazione in America non starebbe subendo alcuna accelerazione brusca, nonostante il mercato del lavoro sia ormai in piena occupazione. Figuriamoci nell’Eurozona, dove i tassi di disoccupazione risultano ancora più che doppi e con punte a due cifre in Italia, Spagna e, soprattutto, Grecia. La crescita tendenziale dei prezzi nell’area è in calo costantemente dal novembre scorso, arrivando all’1,1% di febbraio, un dato ben lontano dal target della BCE, che è “vicino, ma di poco inferiore al 2%”. Un anno fa, il picco dell’1,9%, tanto che si era confidato in una reflazione ormai alla portata.
L’inflazione nell’Eurozona non decolla
I rendimenti sovrani nell’unione monetaria tendono a rispecchiare il “raffreddamento” delle aspettative d’inflazione, con quelli tedeschi praticamente raddoppiati e quelli periferici crollati di diverse decine di punti base in un anno, a conferma che il mercato non si attenda ormai rischi di deflazione, pretendendo prezzi più bassi per comprare i titoli, ma lontani dai livelli “normali” a cui sarebbero dovuti tendere nel caso di un’inflazione prossima all’obiettivo della BCE.
D’altra parte, il prezzo del petrolio continua a oscillare in un range che varia da un minimo di 62-63 dollari a un massimo di 70 dollari al barile, negli ultimi mesi. Né appare probabile un consolidamento oltre questo limite. Nell’ultimo anno, il Brent ha guadagnato circa il 25%, ma il dollaro ha perso contro l’euro intorno al 15%, di fatto alleviando i due terzi dell’aggravio, ormai praticamente assorbito e incorporato nei prezzi. E così, il cambio euro-dollaro, dopo essere arrivato a 1,25 a febbraio, adesso ripiega più in prossimità di 1,20, segno che non parrebbe imminente un rientro dalla divergenza monetaria con la Federal Reserve, nonostante si dia per scontata la fine del “quantitative easing”, al più tardi, dalla fine di quest’anno. E il prossimo governatore della BCE sarà con ogni probabilità un “falco” tedesco, ovvero quel Jens Weidmann, che da anni predica contro l’eccessivo accomodamento monetario di Mario Draghi.
Il mistero della “goldilocks americana” ce lo svela il mese di febbraio
Ci sarebbero tutti gli ingredienti per immaginare una fuga dell’euro contro il dollaro, ma a comandare continua ad essere l’inflazione. Finché non riappare stabilmente e consolidandosi nell’Eurozona, nessuna stretta monetaria sarà ipotizzabile. Nel frattempo, pur con tutta la lentezza del caso, la Fed continuerà ad alzare i tassi USA e la divergenza monetaria tra le due sponde dell’Atlantico continuerà a rimanere elevata, se non ad ampliarsi. E proprio la forza dell’euro influenza in parte la politica monetaria, traducendosi in un abbassamento dei costi per i beni importati, allontanando il raggiungimento della stabilità dei prezzi. E’ avvenuto nei mesi scorsi, segno che la crescita economica nell’area, per quanto la più sostenuta da un decennio a questa parte, non sarebbe così robusta da resistere a un cambio sensibilmente apprezzato.