Sui mercati si stanno verificando movimenti apparentemente paradossali. Ieri, i rendimenti sovrani nell’Eurozona sono saliti a seguito della pubblicazione del dato sull’inflazione di febbraio rilevatosi superiore alle attese. Dall’8,6% di gennaio all’8,5%. Prezzi al consumo in crescita stabile, quindi. Le previsioni sui tassi d’interesse nell’area stanno salendo. Sempre ieri, l’Euribor a 3 mesi per settembre era intravisto al 4% dal 2,78% attuale. Ciò presuppone un rialzo dei tassi fino a 150 punti base o 1,50% dai livelli attuali. Ciononostante, il cambio euro-dollaro è sceso sotto la soglia di 1,06.
Perché paradossale? Con tassi BCE attesi in maggiore rialzo rispetto alle previsioni passate, la moneta unica dovrebbe rafforzarsi. Sta accadendo il contrario. Anziché attirare flussi di capitali da Oltreoceano, i maggiori rendimenti sovrani sembrano essere frutto proprio di deflussi dall’Eurozona in favore degli Stati Uniti. Se ciò è possibile, bisogna guardare a quanto sta accadendo al di là dell’Atlantico. Nomura è la prima banca ad avere profetizzato che la Federal Reserve questo mese alzi i tassi dello 0,50%. A inizio febbraio, li alzò dello 0,25%, lasciando intravedere la fine della stretta monetaria.
Cambio euro-dollaro giù per divergenza monetaria
Nelle ultime settimane, però, si sono moltiplicati i segnali circa un’inflazione americana “sticky”, cioè che non vuole sentirne di scendere rapidamente. Dal 6,5% di gennaio al 6,4%. E il mercato del lavoro resta in piena occupazione. Ecco che i futures segnalano che i tassi FED entro settembre potrebbero salire al 5,75% dal 5% atteso prima del board di un mese fa. A dare conferma delle mutate previsioni anche i rendimenti dei T-bond a 2 anni, che riflettono le condizioni monetarie. Sono salito dal 4,43% al 4,93% quest’anno, cioè esattamente di mezzo punto percentuale. Nello stesso arco di tempo, il Bund a 2 anni si è mosso esattamente della stessa misura, salendo dal 2,69% al 3,17%.
In soldoni, se il cambio euro-dollaro non riesce a risalire e, al contrario, ha ingranato la retromarcia, è perché la divergenza monetaria scontata dal mercato tra FED e BCE rimane intatta. Detto diversamente, è vero che i tassi BCE saliranno più di quanto avessimo immaginato fino a qualche mese fa, ma lo stesso dicasi per i tassi FED. A gennaio, l’euro aveva corso contro il dollaro sull’attesa di una riduzione della divergenza monetaria. Invece, c’è persino il rischio che questa aumenti.
Credibilità BCE inferiore a FED
Se da un lato l’economia americana non invia segnali concreti di una possibile recessione in arrivo, la crescita nell’Eurozona si è già quasi del tutto spenta. Anche da noi lo spettro recessione si sarebbe allontanato per gli analisti internazionali come il Fondo Monetario, ma nel migliore dei casi il PIL crescerebbe di poco. E questo per la BCE può essere un freno nei prossimi mesi, quando si tratterà di spingersi sui tassi in quel territorio “leggermente restrittivo” paventato per “raffreddare” le aspettative d’inflazione.
Proprio la debolezza del cambio euro-dollaro, però, aumenta le pressioni sulla BCE. Essa accresce i costi dei beni importati e finisce per tenere l’inflazione a livelli alti. C’è alla base un problema di credibilità. Nonostante i “falchi” svolazzino sopra l’Eurotower di Francoforte per mostrare il volto duro sulla stretta in corso, il mercato beve solo in parte la loro narrazione. Le condizioni macro spingono gli investitori a valutare con maggiore attenzione le parole dell’americano Jerome Powell e degli altri esponenti del FOMC. E’ ancora una volta la FED a battere i tempi della stretta monetaria globale. E così il dollaro ha recuperato quasi il 4% nell’ultimo mese contro le principali valute mondiali, dopo essere sceso ai minimi da maggio 2022.