Caso Sangiuliano: alla cultura serve il mercato, non un ministero

Dal caso Sangiuliano emerge che la cultura non si fa con i ministeri, ma aprendola al mercato e facendola camminare sulle sue gambe.
2 mesi fa
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caso Sangiuliano
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Sembra che questa estate sarebbe stata ricordata per l’annunciata separazione tra Arianna Meloni e Francesco Lollobrigida. Lei è sorella della premier Giorgia, lui ministro dell’Agricoltura. Neanche il tempo di digerire la notizia che scoppia il caso Sangiuliano. Il ministro della Cultura è travolto nel giro di pochi giorni da una tempesta mediatica che lo coinvolge a proposito di una collaboratrice, la pompeiana Maria Rosaria Boccia. I due, conosciutisi un anno prima, avrebbero avuto una relazione (negata da lei), interrotta l’8 agosto scorso.

L’influencer ed imprenditrice si aspettava la nomina come consulente del ministero a titolo gratuito.

Rischia tappa del G7 Cultura a Pompei

Il finimondo non ha riguardato la tresca, quanto il fatto che ella abbia postato sui social documenti comprovanti il suo coinvolgimento nell’organizzazione del G7 per la Cultura a Napoli e che dovrebbe ancora fare tappa a Pompei, la sua città. Sarebbe così entrata in possesso di dettagli sulle misure di sicurezza, svelando percorsi alternativi per i ministri del consesso. A noi non importa la vicenda giudiziaria in sé. Sempre Boccia sostiene di avere girato in lungo e in largo in Italia a spese del ministero, mentre l’ormai ex ministro giura che abbia pagato di tasca propria le trasferte.

Ministero apparentemente irrilevante

Il Ministero della Cultura non è mai stato politicamente rilevante. Non è tra le posizioni sulle quali litigano i partiti della maggioranza per averne il controllo. Interessano ben altri posti, come Economia, Interno, Esteri, Giustizia, Difesa, Industria (Mise), Agricoltura, ecc. Con l’arrivo a Palazzo Chigi della prima premier donna e di destra nella storia repubblicana, tuttavia, questo dicastero ha assunto connotati più coloriti. A sinistra la cultura è considerata da decenni cosa sua, mentre a destra la nomina di un proprio uomo è servita a segnalare la possibilità di creare un circuito di potere alternativo.

La cultura non va nelle prime pagine dei giornali quasi mai, ma trattasi di una realtà profondamente clientelare e sulla quale si sono create le fortune personali di qualche politico illustre. Il ministero stanzia i fondi a favore di eventi come mostre, fiere, musei, cinema, musica, giornali, ecc. Vi gravitano attorno intellettuali veri e presunti, docenti, giornalisti, scultori, pittori, attori, registi, scenografi, scrittori, poeti, cantanti e personaggi simili. Tutti a inveire contro lo stato, il “regime”, la censura, salvo vivacchiarne sulle sue spalle.

Destra contro monopolio cultura a sinistra

La destra punta esplicitamente a rompere il monopolio della cultura della sinistra. Il caso Sangiuliano ha spinto in tanti a scrivere che questo tentativo, se non fallito, abbia subito una grossa battuta d’arresto. L’ormai ex ministro ha dovuto rassegnare le dimissioni per due volte in pochi giorni, venendo sostituito da Alessandro Giuli, da un anno direttore del museo MaXXI a Roma. Chi ha ragione tra le due parti? Non vi stupite se vi diciamo nessuna delle due. E non per ignavia, bensì per un ragionamento di fondo che sfugge alla politica nel suo complesso.

Quando parliamo di cultura, ci riferiamo a un variegato mondo fatto di arte, idee e pensieri. In sé non è o non dovrebbe essere inquadrabile in una parte politica, se identifichiamo quest’ultima con i partiti. Nella realtà, non c’è nulla di più politico della cultura, in qualità di sede del pensiero, auspicabilmente critico. In un sistema sano, tuttavia, è la politica ad abbeverarsi dalla cultura e non viceversa. In Italia, il clientelismo ha portato all’inversione dei ruoli: i partiti pagano e i menestrelli suonano. Non è di questo che abbiamo bisogno per crescere come cittadini.

Fine dell’amichettismo?

L’attenzione attirata dal caso Sangiuliano non è stata conseguenza di solo gossip. La politica, a destra come a sinistra, si rende conto che mettere le mani sul Ministero della Cultura è precondizione per avere presa su chi fa opinione pubblica.

Ma la cultura di cui l’Italia ha bisogno è tutt’altro, vale a dire un sistema in grado di camminare da sé e autonomo dalla sfera politica. Serve il mercato, parola che farebbe inorridire fior di intellettuali, specie a sinistra. Invece, il mercato è ineludibile se vogliamo premiare il merito e non l’appartenenza. Questa è stata la promessa elettorale di Giorgia Meloni due anni fa: la fine dell’“amichettismo”.

Cosa significa mercato per la cultura? Lo stato deve ritrarsi dalla gestione di musei, siti archeologici, dal finanziamento di cinema, eventi musicali, fiere, mostre e organi d’informazione. Dovrebbe lasciare che sia la domanda a discernere ciò che è “buono” da ciò che non lo è. Ovviamente, una pièce teatrale che non riscontra il favore del pubblico non è detto che sia di per sé sgradevole. Semplicemente, non si capisce perché lo stato debba ostinarsi a finanziarne la messa in atto, finendo per beneficiare un pubblico assai sparuto. I fondi alla cultura hanno spesso, cioè, natura regressiva. Beneficiano la parte della popolazione più ricca attingendo ai soldi dei contribuenti anche più poveri.

Serve cultura del mercato, non ministero

Si obietterà che la cultura non sia un bene di consumo come gli altri. Vero, ma non esiste alcun criterio obiettivo per selezionare i meritevoli dai non. Il ministero serve a distribuire prebende, non a premiare le opere e gli eventi di pregio. Che a sinistra manchi la cultura del mercato non può stupire, ma se manca a destra c’è da impensierirsi. Cos’altro sarebbe altrimenti la svolta promessa, se non il rimpiazzo di un sistema di relazioni con un altro? Cosa ci frega di finanziare uno scrittore di destra al posto di uno di sinistra?

La destra deve porre attenzione a un dato: il monopolio della sinistra non è stato della cultura in sé, quanto del sistema di potere che lo controlla.

E’ stato dovuto all’assenza di alternative che si curassero di questo mondo. I democristiani prima e i berlusconiani dopo hanno preferito governare e lasciare che di libri, film e canzonette si occupassero gli avversari all’opposizione. Solo che così si commette un lento suicidio, permettendo agli altri di alzare la voce in pubblico a discapito della propria. Questo monopolio progressista non ha portato nulla di buono agli italiani. Abbiamo il sistema scolastico più arretrato del mondo avanzato, neanche un’università tra le prime cento al mondo e qualcuna appena tra le prime cinquecento, grazie soprattutto alle private.

Cultura è stata rete di amicizie per politici

Il caso Sangiuliano ha avuto il merito di portare a galla una realtà ignorata o sminuita da molti di noi. Abbiamo colpevolmente pensato per decenni che la cultura fosse un contentino di second’ordine assegnato al partito o politico sfigato della maggioranza parlamentare di turno. Non abbiamo capito che, mentre i ministeri “caldi” finivano spernacchiati tra incombenze quotidiane e l’impossibilità di accontentare gli appetiti delle categorie economiche e sociali, il ministro della Cultura poteva tranquillamente fare clientelismo con relativamente pochi spiccioli, senza dare nell’occhio e creandosi una rete di amicizie preziosa e rumorosa. I veri sfigati si sono occupati di conti pubblici e giustizia in un Paese con un debito mostruoso e tribunali al collasso.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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