Il governo Meloni ha deciso di stangare le banche italiane sui profitti “extra” maturati per via dell’aumento dei tassi di interesse con una tassa una tantum del 40%. Gli istituti di credito hanno pagato pegno in borsa nella seduta di ieri, lasciando sul terreno una decina di miliardi di euro, circa il 6% dell’intera capitalizzazione. La misura, a detta dei ministri, si sarebbe resa necessaria dopo che le banche avevano fatto orecchie da mercante sulla necessità di adeguare la remunerazione dei risparmi a favore dei clienti.
Tassa su profitti “extra” incostituzionale?
Prima che la proposta diventi legge, sarà necessario che passi il vaglio del Parlamento. Lì ci potrebbero essere modifiche anche sostanziali. Il rischio di incostituzionalità si mostra elevato, trattandosi per alcuni versi di una sovrattassa retroattiva. Stando ai dati dell’Associazione bancaria italiana, a maggio di quest’anno la differenza o spread tra tassi attivi (su mutui e prestiti) e tassi passivi (sulla raccolta tra la clientela) risultava in crescita a 332 punti base o 3,32%. Il margine di interesse, in buona sostanza, si è riportato ai livelli di fine 2007 (3,35%), prima che la crisi di Lehman Brothers sconquassasse i mercati.
Un anno prima, lo spread era di appena 192 punti o 1,92%. Infatti, in media i tassi attivi erano al 2,21% e i tassi passivi allo 0,29%. Tre mesi fa, erano saliti rispettivamente al 4,25% e allo 0,93%. Che vi sia una evidente simmetria nell’andamento dei tassi attivi e quelli attivi, è fuori questione. Che la tassa sui profitti “extra” delle banche sia una soluzione a tale problema, i dubbi sono fortissimi. In effetti, qui parliamo di “eccesso” di profitti, ma da mesi si teme il rischio opposto, vale a dire di perdite a carico dei bilanci bancari.
Rischi per mercato del credito
La ragione di questa crisi bancaria è dovuta all’aumento dei tassi di interesse, che ha ridotto il valore degli asset finanziari a bilancio. Tra questi, vi sono le obbligazioni. E tra le obbligazioni figuravano nel maggio scorso ben 380 miliardi di euro di titoli di stato italiani tra le banche domestiche. Considerate che in due anni i BTp sono scesi di prezzo di un quarto. Se gli istituti dovessero aggiornare i valori di questi bond, iscriverebbero a bilancio perdite, altro che profitti. Finché non avranno necessità di rivendere, queste rimarranno nascoste. Tuttavia, qualora avessero bisogno di liquidità per rimpinguare la quale dovessero rivendere i bond, emergerebbero i reali valori degli asset rispetto a quelli più alti di carico.
Non è finita. Ad oggi stiamo ignorando un altro rischio materializzatosi drammaticamente nel decennio passato: le sofferenze bancarie. Sempre nel maggio scorso, il loro valore netto risultava in calo sia in valore assoluto che percentuale rispetto ad un anno prima: appena 15,32 miliardi, lo 0,89% degli impieghi. Intendiamo l’ammontare dei prestiti ad elevato rischio di mancato rimborso. In genere, però, il dato tende a salire in ritardo rispetto ad una situazione di stress finanziario per le famiglie debitrici. C’è da dire che, a differenza di quasi un decennio fa, la situazione macroeconomica appare nettamente migliore. L’apice delle sofferenze si ebbe tra il 2015 e il 2016, dopo che nel 2013 il tasso di disoccupazione aveva raggiunto il record storico del 13%. Adesso, è sceso ai minimi dal 2009, cioè al 7,4%.
Punire le banche è sbagliato
In definitiva, l’allarmismo non serve, ma la prudenza sì.