Le immagini di questi mesi in arrivo dal Venezuela toccano il cuore. Scaffali vuoti e valigie piene di banconote sufficienti a malapena per un caffè al bar, mentre migliaia di persone fuggono ogni giorno all’estero per scappare dalla fame, di cui si stimano 600-800 solo verso il Brasile. L’inflazione sarebbe già esplosa intorno al 100.000% ed entro l’anno, stando al Fondo Monetario Internazionale, salirebbe al milione percento. Nel frattempo, il governo ha ritirato le vecchie banconote dalla circolazione, emettendone di nuove con 5 zeri in meno e svalutando il cambio del 96% contro il dollaro.
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Per capire come si sia arrivati a una situazione così tragica per un’economia considerata fino agli anni Settanta tra le più ricche al mondo bisogna partire dalla fine degli anni Novanta. Hugo Chavez, a capo del Partito Socialista Unito del Venezuela, vince le elezioni e diventa il nuovo capo dello stato con un programma marxista e dichiaratamente ostile al capitalismo. I capitali fuggono dal paese andino, come segnala il -75% accusato in pochissimi anni dal bolivar, tanto che agli inizi del 2003, per arrestare i deflussi ed evitare che essi stimolino eccessivamente l’inflazione, il governo “chavista” fissa la parità contro il dollaro a 1,6, un tasso già allora considerato irrealistico.
Chavez avrà fortuna per il decennio successivo e praticamente fino alla sua morte, avvenuta nell’inverno del 2013. Grazie al boom delle quotazioni del petrolio, sostanzialmente l’unico bene esportato dal Venezuela, le riserve valutarie s’impennano e quadruplicano fino a un massimo di oltre 44 miliardi di dollari nel 2009, il cambio regge la sfida del “peg” e i proventi delle esportazioni vengono impiegati per finanziare programmi di spesa assistenziali.
La triste era Maduro
Inizia così l’era di Nicolas Maduro, tra prezzi in ascesa e riserve valutarie calanti a ritmi preoccupanti, tanto da passare in appena un quinquennio da 30 a 8,5 miliardi di dollari. Alla crisi già in atto, si aggiunge il tracollo delle quotazioni petrolifere. E’ solo il primo tempo di un lungometraggio drammatico: i prezzi massimi imposti dal regime disincentivano le imprese a produrre, mentre il petrolio fa entrare nel paese sempre meno dollari e le sue estrazioni diminuiscono, visto che negli anni del “chavismo” sono stati realizzati bassi investimenti, essendo stati i proventi impiegati quasi esclusivamente per finalità pubbliche. Prima di Chavez, la compagnia petrolifera statale PDVSA produceva 3 milioni di barili al giorno con 45.000 dipendenti, mentre oggi si aggira a meno della metà con oltre 3 volte il numero dei dipendenti.
Il governo avrebbe potuto superare la crisi con due mosse: rimuovendo i prezzi amministrati e lasciando fluttuare il cambio liberamente sul mercato valutario come fece a fine 2014 la Russia di Vladimir Putin. Così non è stato, in ossequio sia a ragioni ideologiche, sia anche a convenienze di un apparato politico-burocratico e militare profondamente corrotto. Il cambio sul mercato nero collassa, distanziandosi ogni giorno di più da quello fisso ufficiale, segno che i dollari scarseggiano e i venezuelani sono disposti a comprarseli a tassi penalizzanti. Le imprese non hanno più la possibilità di importare dall’estero le materie prime e i semi-lavorati necessari per la produzione, non avendo al cambio ufficiale e alle aste loro dedicate la possibilità di trovare tutta la valuta estera richiesta.
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L’esplosione dell’iperinflazione
La situazione si avvita a tal punto, che già dal 2015-’16 si notano tutte le condizioni per una iperinflazione, che si palesano in maniera manifesta negli ultimi mesi, quando la crescita dei prezzi ha smesso di essere a tre cifre e ha imboccato la strada delle quattro-cinque cifre prima e delle sei adesso, tendendo alle sette. La maxi-svalutazione del 20 agosto non sta avendo alcun effetto pratico positivo, perché con l’iperinflazione in corso, nessuno vuole tenersi i nuovi bolivares “sovrani” in tasca e cerca di spenderli non appena li riceve per liberarsene come fossero una patata bollente. Inoltre, i prezzi continuano ad essere ridicolmente fissati dal governo nella loro misura massima per la gran parte dei beni, quando è impossibile persino per i commercianti capire come aggiornarli di ora in ora. Per non parlare del petrolio, non solo dalla produzione ed esportazioni calanti, ma persino destinato in grossa misura a soddisfare i creditori cinesi e russi e una dozzina di alleati socialisti di Petrocaribe, nonché a sussidiare i consumi domestici di carburante ed elettrici. Giovedì, vi abbiamo mostrato come con un solo dollaro ci si potrebbe comprare in Venezuela oltre 8,7 milioni di litri di benzina.
Cosa dovrebbe fare il Venezuela, arrivati a questo punto? Smettere di stampare moneta per coprire i deficit fiscali, liberalizzare il tasso di cambio e porre fine al controllo sui prezzi. Affinché i venezuelani riacquistino fiducia nel bolivar, sarebbe necessario che il governo si mostri credibile nel tutelare la stabilità dei prezzi, per cui servirebbero ormai un cambio di regime e l’ancoraggio della quantità di moneta emessa a un asset solido, come sarebbe l’oro, oppure al dollaro, tramite il cosiddetto sistema del “currency board”.
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