Come il debito pubblico italiano continua a restare sostenibile grazie alla BCE

La BCE sta monetizzazione i debiti sovrani nell'Eurozona, pur senza ammetterlo. E quello italiano continua così a rimanere sostenibile, malgrado l'esplosione nell'ultimo decennio.
5 anni fa
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All’ultimo board di giovedì scorso, la BCE ha potenziato i suoi stimoli monetari, tagliando i tassi applicati alle aste T-Ltro e annunciandone di altre 7 a lungo termine e senza vincoli, un modo per far fluire liquidità alle banche commerciali e senza che queste debbano preoccuparsi su come impiegarla. Si tratta a ben vedere di metodi di monetizzazione dei debiti pubblici nazionali, mascherati da soluzioni tecniche, vuoi per non configgere con i Trattati, vuoi per non urtare la suscettibilità dell’opinione pubblica nel Nord Europa.

Piaccia o meno ammetterlo, però, la BCE sta facendo proprio questo, monetizzare i debiti degli stati, al fine di renderli sostenibili laddove non lo sarebbero.

Volete un esempio? A fine 2019, il debito pubblico italiano risultava salito sopra il 135% del pil, sfiorando i 2.410 miliardi di euro. Tuttavia, il Tesoro di Roma ha emesso titoli di stato mediamente a rendimenti molto bassi, con il Rendistato della Banca d’Italia ad avere segnalato una discesa fino a un minimo dello 0,57% a settembre. In altre parole, il debito sale e la spesa per interessi continua a scendere, contribuendo a contenere il deficit, pur a fronte di un avanzo primario stabile o persino in peggioramento.

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Debito pubblico italiano dipendente dalla BCE

Com’è possibile? Proprio grazie alla BCE, che dal 2015 acquista regolarmente titoli di stato dell’Eurozona con il “quantitative easing”, oltre ad altri assets, con la sola eccezione dei primi 10 mesi dello scorso anno, nel corso dei quali si è limitata a rinnovare le scadenze per mantenere inalterato il bilancio. Alla fine del 2019, i BTp in possesso dell’istituto ammontavano a 363,8 miliardi di euro e al 30 aprile scorso risultavano già saliti a 393,4 miliardi. E così, al 31 dicembre scorso, il debito pubblico italiano non in mano alla BCE valeva il 115% del pil, meno del 2011, anno in cui esplose la famosa crisi dello spread, sebbene nel frattempo il rapporto debito/pil sia salito dal 119% a oltre il 135%.

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Quest’anno, salirà ancora e probabilmente fino a superare il 160% del pil, a causa del contestuale collasso dell’economia e del gettito fiscale, per non parlare delle misure di sostegno ai redditi già varate dal governo e quelle ancora da varare. Tuttavia, stanno accelerando anche gli acquisti netti di BTp da parte della BCE. In aprile, ad esempio, sono stati di 10,9 miliardi, circa il 37% del totale. E nei primi 4 mesi dell’anno, hanno equivalso a quasi un terzo (31,7%), cioè a poco meno di 30 miliardi. A marzo, oltre ai 20 miliardi di euro mensili di assets acquistati con il QE ordinario, sono stati varati due nuovi programmi: un potenziamento del QE per 120 miliardi e il PEPP da 750 miliardi, quest’ultimo in risposta all’emergenza Coronavirus e senza vincoli legati alle dimensioni nazionali.

In tutto, all’Italia spetterebbe una quota di acquisti di 180 miliardi, di cui possiamo immaginare almeno 120 miliardi dedicati ai titoli di stato. A fine anno, quindi, il rapporto debito/pil potrà anche salire sopra il 160%, ma la quota di debito effettivamente in mano al mercato non andrà oltre il 132%, pur in netta crescita rispetto al 2019. Lo stesso discorso vale, chiaramente, per tutti gli altri paesi dell’Eurozona. Al netto delle detenzioni di bond da parte della BCE, il debito pubblico tedesco scenderebbe al 44%, quello francese all’81% e quello spagnolo al 75%. Ora, formalmente la BCE si comporta da normale creditore privato, cioè pretende i pagamenti dei governi alle scadenze, siano esse relative a cedole o al capitale. E così è avvenuto sino ad oggi.

La monetizzazione dei debiti sovrani

Tuttavia, il solo fatto che alle scadenze i bond vengano riacquistati per mantenere integro il bilancio dell’istituto, ufficialmente per tendere al target d’inflazione “vicino, ma di poco inferiore al 2%”, la dice lunga sulla peculiarità di questo investitore.

Se la Federal Reserve funge da esempio, essendo arrivata sempre prima sulle azioni straordinarie di politica monetaria, dimagrire gli assets a bilancio non sarà facile, per non dire impossibile. Vendere BTp, Bund, Bonos, Oat, etc., significherebbe raccogliere liquidità dal mercato, cioè restringere le condizioni monetarie nell’area, facendo salire i tassi di mercato e i rendimenti sovrani. Anche solo non riacquistare i titoli in scadenza per un pari importo equivarrebbe a ridurre la liquidità in circolazione, perché gli stati sarebbero costretti a rivolgersi al mercato, sottraendovi capitali. E fino a quando l’inflazione nell’area non si sarà stabilizzata attorno all’obiettivo, tutto questo non avverrà.

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Man mano che gli anni passano, quindi, i debiti degli stati restano “congelati” per la parte in possesso di Francoforte. I governi non devono preoccuparsi di questi debiti in scadenza, potendo confidare in un loro rinnovo automatico. E nel tempo, questo comporta una perdita del loro valore reale per il gioco dell’inflazione. I quasi 400 miliardi di euro di BTp ad oggi in mano alla BCE tra 20 anni varranno il 35% in meno, se l’inflazione media sarà stata nel frattempo dell’1,5% annuo. E per effetto della crescita del pil nominale (reale + inflazione), questa quota di debiti risulterà sempre più bassa. Immaginando un tasso di crescita nominale del 2,5%, tra 20 anni il debito italiano in pancia all’istituto varrebbe come 240 miliardi di oggi, cioè inciderebbe non più per il 22% del pil, bensì per il 13,5%. Per strada, si saranno “persi” 8-9 punti.

E più sarà alta la quota di debito acquistata dalla BCE rispetto al totale, maggiore il beneficio fiscale. Per questo, probabile che la BCE continui nei prossimi anni ad acquistare bond in misura superiore alle emissioni nette programmate dai governi dell’area.

Se per ipotesi estrema, ma ormai nemmeno così peregrina, oggi tutto il debito pubblico italiano fosse in mano alla BCE, tra 20 anni, il rapporto tra questo stock e il pil scenderebbe sotto l’85%, sempre ipotizzando una crescita nominale del 2,5%. Ecco spiegato perché tutti guardano alle banche centrali ormai per avere certezza della sostenibilità dei debiti sovrani crescenti nel mondo. Attenzione, perché questo non esclude in automatico prudenza fiscale. Se il peso del nostro debito si riduce per quanto detto da un lato, ma cresce per effetto dei disavanzi dall’altro, alla fine i mercati non ne ricaverebbero una percezione solida, anzi vedrebbero sprecata l’occasione storia dell’Italia di sdebitarsi. La monetizzazione dei debiti non è alternativa, ma complementare a una politica di bilancio sana.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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