Le borse mondiali stanno collassando. Wall Street è formalmente entrata nell’orso con la seduta di mercoledì, con l’indice S&P 500 ad avere perso circa il 23,5% dai massimi toccati solamente a febbraio. La corsa ai bond capta la fuga degli investitori dagli assets a rischio, mentre il crollo del petrolio di quasi il 50% da inizio anno è frutto non solo dei timori del mercato per gli effetti del Coronavirus sull’economia mondiale, ma anche della mancata reazione dell’OPEC+, dopo che la Russia ha deciso di non tagliare ulteriormente la produzione, ponendo fine a un sodalizio più che triennale con l’Arabia Saudita per sostenere i prezzi internazionali.
Perché la guerra del petrolio di Putin e principe saudita contro Trump sarà persa
La mossa di Vladimir Putin ha scioccato tutti. Il principe Mohammed bin Salman, vero detentore del potere saudita, ha subito ordinato il taglio dei prezzi del 10% e l’aumento della produzione a 10 milioni di barili al giorno, così da segnalare a Mosca di avere intenzione di giocare d’ora in avanti secondo le proprie regole, avendo dalla sua un arsenale di 500 miliardi di dollari da utilizzare per combattere il tracollo delle entrate fiscali.
La Russia rispetto al regno dispone dell’arma del cambio, la cui flessibilità le consente di compensare i cali dei prezzi con un rublo più debole contro il dollaro, mantenendo stabili le entrate in valuta locale e non correndo il rischio di una crisi fiscale, semmai di un’impennata dell’inflazione. Ma con questa decisione clamorosa di settimana scorsa, Putin ha scombinato gli scenari. I mercati, che fino a venerdì avevano a che fare solamente con il problema del rallentamento globale, adesso scontano anche il rischio di deflazione. Un greggio molto meno caro, infatti, significa minori costi per i beni energetici (e non solo), cioè un calo tendenziale e generalizzato dei prezzi.
Il “colpo” di Putin
E la deflazione rischia a sua volta di fare saltare i conti pubblici di vari stati e i bilanci di molte compagnie petrolifere, gonfiando nel primo caso il peso dei debiti e riducendo nel secondo i ricavi con cui onorare le scadenze. E a soffrire di più saranno le compagnie americane, le quali sinora hanno goduto del “floor” per le quotazioni offerto dall’accordo sul taglio dell’offerta, aumentando la loro produzione del 50% in poco più di tre anni, portandola ai massimi storici complessivi di 13 milioni di barili al giorno, il 13% del totale nel mondo.
Donald Trump ha già reagito con l’annuncio di un piano per il taglio del cuneo fiscale, che non ha convinto Wall Street, non fosse che per il fatto che il colpo che l’economia mondiale sta subendo a causa del Coronavirus riguardi l’offerta, non la domanda, ed è stato assestato dall’interruzione della catena produttiva, mentre l’Italia anticipa probabilmente le conseguenze che anche altri stati dell’Occidente dovranno patire per contenere l’epidemia, cioè la chiusura temporanea di tutte le attività o quasi. Mancando solo otto mesi alle prossime elezioni presidenziali, il tycoon non può sbagliare e forse non è un caso che Mosca lo stia mettendo in difficoltà proprio alla vigilia della tanto ricercata rielezione alla Casa Bianca.
Crolla il petrolio sulla “guerra” russo-saudita
La Russia è oggetto di sanzioni UE e USA da sei anni per l’occupazione della Crimea. Sul piano geopolitico, versa in una condizione di semi-isolamento, esclusa dal G8, ridottosi a un vertice di 7, mentre anche su capitoli delicatissimi come la Siria non trova un accordo stabile con Washington. Malgrado i propositi, Trump non è riuscito e non ha voluto “scongelare” in questi anni le relazioni diplomatiche con il Cremlino, anche solo per allontanare i sospetti di connivenza con Putin e alimentati dal cosiddetto “Russiagate”.
Il rischio di deflazione
Le principali banche centrali da diversi anni sono frustrate dal mancato raggiungimento dei target d’inflazione, i quali certamente saranno ancora meno alla portata nei prossimi mesi, malgrado innumerevoli stimoli monetari senza precedenti varati e potenziati nel tempo. Lo spettro della deflazione e della recessione incombe particolarmente nell’Eurozona, negli USA la principale preoccupazione riguarda la seconda. Entrambe sono nelle mani, per un verso, di Putin. Se egli smettesse di combattere lo “shale” americano e tornasse ad accordarsi con Riad per sostenere i prezzi del Brent, questi risalirebbero, i capitali defluirebbero parzialmente dai bond e a favore delle azioni e sui mercati si respirerebbe un’aria meno drammatica, ridando un po’ di fiato alle economie principali.
Ma Putin non muoverà un passo in favore dell’Occidente senza avere prima ottenuto ciò che vuole: un posto a tavola con i grandi leader della Terra. Il presidente russo chiede il riconoscimento dello status di potenza per la sua nazione, finora negatogli sia dagli europei che dagli americani. Pretenderà la fine delle sanzioni, per quanto blande, e un accordo geopolitico a tutto tondo con Trump. Se qualcosa prima di novembre si muoverà in tal senso, egli tornerà a trattare con MbS sul petrolio e farà tirare un sospiro di sollievo all’industria dello “shale” negli USA, tra i motori della crescita economica a stelle e strisce nell’ultimo decennio, e alla BCE nell’Eurozona. Viceversa, deflazione e recessione saranno termini con cui conviveremo nei prossimi mesi.
Forniture di petrolio all’Europa minacciate da Putin