Commercio mondiale, e se Trump ci aiutasse a correggere gli squilibri globali?

La presidenza Trump mette realmente a rischio il commercio mondiale o stiamo sbagliando approccio al problema? Vediamo perché la globalizzazione non sarà vittima della nuova amministrazione USA.
8 anni fa
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La Cina non è problema sorto con Trump

Un accordo è sempre fondato su volumi interminabili di regole, eccezioni, standardizzazioni, armonizzazioni legali, che a dirla tutta sono l’esatto contrario di quello che s’intenderebbe per libero commercio. Per quest’ultimo varrebbe solo lo storico principio del “laissez passer” del liberalismo economico settecentesco.

Quanto alla Cina, Trump pone in maniera molto più dirompente e sfacciata un problema che ha portato già a qualche frizione tra Pechino e Washington sin dalla seconda amministrazione Bush jr, quando il governo americano di allora pose il problema del cambio cinese sottovalutato, sfuggente ai meccanismi del mercato e, pertanto, in grado di provocare squilibri globali divenuti sempre più giganteschi.

(Leggi anche: Cambio cinese ha toccato il fondo?)

La Cina non è un’economia di mercato

La Cina ha sfiorato i 4.000 miliardi di dollari di riserve valutarie, frutto di ingenti surplus commerciali, accumulati da anni di corsa delle proprie esportazioni. Nulla di sbagliato, se fosse il solo risultato delle libere forze del mercato. Nel caso cinese, però, le cose stanno diversamente. Anzitutto, Pechino non adotta il principio di reciprocità: gli investitori stranieri non possono detenere oltre il 49% del capitale di una società e quando aprono un’impresa sul territorio cinese sono tenuti ad avvalersi di management locale. Non solo: il governo cinese ha sin dall’agosto del 2015, in piena crisi valutaria, disposto una serie di restrizioni ai movimenti dei capitali, per cui oggi un residente non può investire ogni anno più di 50.000 dollari all’estero. Un principio non esattamente in linea con l’apertura al mondo sbandierata al World Economic Forum di Davos, Svizzera, dal presidente Xi Jinping, qualche settimana fa.

Il caso della crisi dell’acciaio evidenzia, poi, quanto le logiche produttive cinesi abbiano spesso poco a che vedere con le regole del capitalismo. Lo stato sostiene l’offerta nazionale, quand’anche essa risultasse eccessiva rispetto alla domanda, coprendo le perdite delle società e incentivandole ad esportare gli eccessi produttivi, finendo con il far schiantare i prezzi internazionali.

Non Trump, ma l’amministrazione Obama ha imposto dal dicembre 2015 dazi del 236% contro l’acciaio cinese, percentuale raddoppiata nel corso dello scorso anno, proprio perché il governo cinese ha palesemente violato una delle regole fondamentali del WTO, ovvero giocare ad armi pari. (Leggi anche: Guerra commerciale dell’acciaio tra USA, Europa e Cina)

 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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