Prima ancora di sabato scorso, avevamo intravisto lo scenario di un autunno caldo. Le violenze a Roma di frange estremiste contro il green pass hanno semplicemente confermato questa sensazione. Se finora sono state le polemiche sui vaccini e sulle certificazioni anti-Covid ad avere surriscaldato il dibattito pubblico, prossimamente potrebbe essere l’inflazione ad infiammare gli animi.
Per quest’anno, la crescita media dei prezzi al consumo attesa dal governo è dell’1,5%. Una previsione probabilmente al ribasso, se è vero che a settembre risultava già salita al 2,6%, trainata dai prezzi energetici a +20,2%.
E i redditi non stanno certamente tenendo il passo con l’inflazione. E’ vero che il PIL quest’anno crescerebbe di ben il 6%, ma questo dato arriva dopo un pesante -8,9% nel 2020. Alla fine dell’anno prossimo, confidando che tutto vada bene, ci saremo riportati poco sopra i livelli di ricchezza pre-Covid. Questo surriscaldamento dei prezzi in una fase di sofferenza per le famiglie rischia di agitare gli animi. L’Italia è arrivata all’appuntamento imprevisto con la pandemia già stremata. Il suo PIL reale a fine 2019 risultava pari a -4% rispetto ai livelli del 2007. E dall’inizio del millennio fino alla fine del 2020, gli stipendi mesi sono cresciuti di un paio di punti sotto l’inflazione.
Inflazione e rischio malcontento
In altre parole, le famiglie italiane posseggono oggi lo stesso potere di acquisto di fine anni Novanta. Qualora l’inflazione corresse più velocemente dei redditi, ci riporteremmo ancora più indietro. Non è difficile immaginare quante tensioni sociali ciò si trascinerebbe. Anche perché, con buona pace degli istituti di statistica nazionali, dall’America all’Europa i consumatori stanno avvertendo il boom dei prezzi al consumo in misura ben maggiore di quanto non segnalino i dati ufficiali.
I periodi di alta crescita dell’inflazione sono caratterizzati tipicamente da malcontento. L’ultima volta che ciò accadde in Italia fu negli anni Settanta/Ottanta, quando il terrorismo di matrice politica insanguinò le nostre strade. Il carovita (parliamo di iperinflazione) fu storicamente la molla che fece schizzare i consensi nella Germania degli anni Venti a favore di uno sconosciuto partito nazionalsocialista. Più di recente, l’inflazione provocò rivolte nel mondo arabo oltre una decina di anni fa, note come “primavere”. Dittature apparentemente incrollabili come quella di Ben Alì in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto furono travolte dai moti di piazza.
Stiamo facendo riferimento a episodi storici molto diversi tra loro e certamente estremi. Tuttavia, è storicamente assodato che l’inflazione provochi malcontento. Persino nell’Antica Roma le proteste contro il carovita erano prese sul serio dagli imperatori. Pensavamo di esserci liberati di questo male nell’ultimo decennio, mentre da qualche mese siamo tornati a parlarne impauriti e frastornati. Anche perché il fenomeno si trascinerebbe dietro un rialzo dei tassi più veloce delle previsioni e la riduzione degli stimoli monetari delle banche centrali. I governi non potrebbero più cercare di mantenere la pace sociale a colpi di sussidi e spesa pubblica in deficit, dovendo fare i conti con costi d’indebitamento più elevati. Insomma, l’inflazione è un brutto affare. Occhio a sottovalutare il clima di rabbia che ribolle già nelle piazze.