Forse l’effetto più macroscopico del Covid sul mondo del lavoro è stato quello di aver acceso i riflettori sullo smartworking. Anche le aziende più tradizionaliste si sono forzatamente aperte a questa possibilità e ciò ha permesso di scoprirne i vantaggi. C’è chi ha parlato di una rivoluzione da cui non si può più tornare indietro. Ma il cambio culturale presuppone di ripensare alcuni aspetti e definire questioni legate al lavoro a distanza, compreso il profilo fiscale. Ad esempio: dove pagare le tasse?
Restare in smartworking anche dopo il Covid: molte aziende potrebbero non tornare indietro
Anche le Pubbliche Amministrazioni hanno risposto all’esigenza di riorganizzare in smart working il lavoro.
Nel complesso la reazione è stata positiva: l’88% dei dipendenti ha espresso parere favorevole e il 93,6% vorrebbe continuare a lavorare in smart working.
Numerose anche le aziende private in cui non solo la felicità dei dipendenti ma anche la produttività sembra essere migliorata. Ci sono anche agenti immobiliari che a Londra hanno preventivato una fuga dalla grande città verso i cd “paradisi verdi”, ovvero località amene in cui lavorare da remoto. Basta una connessione ad internet stabile.
Ripensare lo smartworking a livello strutturale impone però una maggiore organizzazione sotto diversi profili, incluso quello fiscale.
Dove paga le tasse chi lavora in smartworking: nomadi digitali nei paradisi fiscali?
L’espressione smart working negli Stati Uniti in realtà è più nota come “Work From Anywhere”, WFA, “lavorare da ovunque”. Già oggi esiste la popolazione dei nomadi digitali, freelance che girano il mondo lavorando. Spesso la partita IVA risulta aperta in Paesi in cui si pagano meno tasse.
L’esempio è quello degli USA e dell’Etiopia in cui i cittadini non vengono tassati in base alla residenza bensì alla cittadinanza.
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