Il presidente della Consob, Mario Nava, ha rassegnato le dimissioni dopo mesi di pressioni del governo Conte e una richiesta esplicita da parte della maggioranza per “sensibilità istituzionale”. L’uomo era finito nel mirino di Lega e Movimento 5 Stelle per la sua presunta mancanza di indipendenza, essendo un dirigente della Commissione europea e non avendo chiesto un’aspettativa per ricoprire la carica di presidente dell’authority dall’aprile scorso, bensì un semplice distaccamento. L’interessato ha giustificato la sua decisione con la totale assenza di sostegno politico, divenuta piuttosto palese negli ultimi giorni, nonostante abbia rivendicato la bontà della sua posizione, sulla quale non hanno avuto da ridire, spiega, ben quattro istituzioni: Commissione UE, Presidenza del Consiglio, Presidenza della Repubblica e Corte dei Conti.
Ad ogni modo, un’altra nomina del governo Gentiloni è stata spazzata via in pochi mesi. A luglio era toccato ai vertici delle Ferrovie, fatti decadere dal ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, rimpiazzati da un altro consiglio di amministrazione. L’Italia giallo-verde entra sempre più nel sistema e quelle di Nava appaiono dimissioni che contano. L’authority monitora l’andamento dei titoli delle società quotate a Piazza Affari e studia i dossier che riguardano queste ultime. Ve ne sono un paio politicamente scottanti, perché riguardano niente meno che l’ex premier Silvio Berlusconi, formalmente ancora alleato “scomodo” di Matteo Salvini, azionista della maggioranza e “dominus” della politica italiana di questa fase.
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TIM, Mediaset e authority
Per capire di cosa parliamo, dobbiamo fare un rapido passo indietro all’ingresso di Vivendi nel capitale di Mediaset, avvenuto in modalità opache, ovvero dopo che la società francese aveva disdetto il contratto per l’acquisizione di Premium. La creatura di Vincent Bolloré si portava al 29,9% di Cologno Monzese, la percentuale massima consentita dal TUF prima di dovere lanciare un’OPA obbligatoria sul capitale rimanente.
Fin qui, il passato. Berlusconi, arrivato a un passo dal perdere i gioielli di famiglia, se la cava e deve ringraziare il governo Gentiloni e i suoi dirigenti presso le authority per questo. Nel frattempo, poi, Vivendi è stata cacciata dalla plancia di comando in TIM, attraverso l’ingresso della Cdp nel capitale della compagnia, che ha rafforzato il sostegno degli azionisti attorno a Elliott Management, anch’esso ostile ai francesi, riuscendo a ribaltare i rapporti di forza all’assemblea della primavera scorsa. L’operazione, benedetta sempre dal governo Gentiloni, è stata sostenuta anche dalle allora forze di opposizione, ossia Lega e 5 Stelle, in virtù di una riconduzione attesa della rete sotto il controllo statale, passando per lo scorporo e la successiva integrazione con Open Fiber, a sua volta controllata da Enel e Cdp.
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E adesso? In teoria, Luigi Di Maio, a capo del dicastero a cui fanno riferimento i dossier industriali, continuerebbe ad essere ostile ai francesi in TIM e persino in Mediaset, data la linea “sovranista” che sta contraddistinguendo questo esecutivo.
Parole di circostanza? Eh, no! Paradossale che possa apparire, proprio Di Maio si starebbe avvicinando a Vivendi sul caso Telecom Sparkle. La controllata di TIM è una delle società al mondo più importanti nella gestione di 530.000 km di cavi in fibra ottica per le comunicazioni anche intercontinentali. Trattasi di una realtà strategica, per questo sottoposta alle regole della “golden power”, nel senso che il governo ha l’ultima parola su tutti gli aspetti gestionali di rilievo. Elliott, il nuovo azionista di maggioranza in TIM, vuole vendere Sparkle, in quanto asset non core, mentre Vivendi vorrebbe tenersela, forse anche nel tentativo di ingraziarsi il nuovo governo, che di cedere sul mercato, e magari a operatori stranieri, una realtà come questa non ci pensa nemmeno lontanamente. Rumors vorrebbero che alla fine per 800-900 milioni possa rilevarla la Cdp, magari integrandola successivamente con Open Fiber e la stessa rete TIM, quando avverrà la fusione. Tuttavia, questo asse tra la società di Bolloré e Di Maio rischia per Berlusconi di essere tutt’altro che episodico.
Nel 2019, arriva a scadenza anche il board dell’AgCom, altro baluardo nella difesa degli interessi aziendali dell’ex premier. E con il rimpiazzo di Nava alla Consob, il sistema delle authority con voce in capitolo in tema di telecomunicazioni verrebbe stravolto da qui a pochi mesi, lasciando Mediaset politicamente alla mercé dei desiderata del ministro dello Sviluppo.
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