Firenze, 25 luglio 2018. Cosa fa un consulente finanziario?
Come per tutte le professioni, dietro un’etichetta (medico, avvocato, ingegnere, commercialista, architetto, ecc.) ci sono tantissime varianti e declinazioni. Uno dei problemi specifici della consulenza finanziaria è che si tratta di una professione relativamente giovane, semisconosciuta e quel poco che se ne sa è generalmente sbagliato per le ragioni che saranno evidenti in seguito.
La consulenza finanziaria come “prodotto”
Partiamo dalla definizione giuridica del servizio di consulenza finanziaria. Il Testo Unico della Finanza (d.lgs. 58/98), all’art.
“Per “consulenza in materia di investimenti” si intende la prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative a strumenti finanziari.” (1)
Dire che ciò che definisce la consulenza finanziaria è la redazione di raccomandazioni è un po’ come definire la medicina come “la redazione di ricette per acquistare farmaci”. Oppure la professione di architetto come “la redazione di progetti tecnici per opere edili” ecc.
E’ chiaro che si tratta di una definizione riduttiva, influenzata da una visione della finanza come un mercato di prodotti da scegliere.
Ed in effetti, come spesso accade, la norma ha semplicemente fotografato l’esistente, sebbene poi abbia introdotto alcune modifiche rilevanti che vedremo in seguito.
La realtà è che oggi la quasi totalità di coloro che si definiscono “consulenti finanziari”, in Italia (ma non solo), sono degli agenti di commercio che vendono prodotti o servizi.
So che alcuni “consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede” si risentono quando scriviamo che sono “agenti di commercio”, ma loro sono i primi a saperlo dal momento che hanno firmato un mandato con una istituzione finanziaria, il quale prevedere delle provvigioni. Sono i primi a sapere che pagano i contribuiti pensionistici all’Enasarco, cioè la cassa di previdenza degli agenti commercio.
Lo stesso Testo Unico della Finanza, poche righe dopo aver definitivo la consulenza finanziaria, definisce l’agente collegato(comma 5 -septies . 2.): “si intende la persona fisica o giuridica che, sotto la piena e incondizionata responsabilità di una sola impresa di investimento per conto della quale opera, promuove servizi di investimento e/o servizi accessori presso clienti o potenziali clienti, riceve e trasmette le istruzioni o gli ordini dei clienti riguardanti servizi di investimento o strumenti finanziari, colloca strumenti finanziari o presta consulenza ai clienti o potenziali clienti rispetto a detti strumenti o servizi finanziari”.
Il comma successivo definisce il “consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede”: si intende la persona fisica iscritta nell’apposita sezione dell’albo previsto dall’articolo 31, comma 4, del presente decreto che, in qualità di agente collegato, esercita professionalmente l’offerta fuori sede come dipendente, agente o mandatario”.
Chiamarli “consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede”, nome che poi tutti abbreviano semplicemente in “Consulenti finanziari” non cambia la sostanza delle cose: restano agenti di commercio, promotori di prodotti e servizi della mandante. Punto.
Il “problema” (per loro e per l’industria del risparmi gestito) è che la nuova normativa europea (entrata formalmente in vigore quest’anno, ma che richiederà ancora un po’ di tempo prima di essere completamente applicata) ha reso molto più difficile vendere direttamente i prodotti finanziari. Per poter continuare la loro attività è necessario, e lo sarà sempre di più in futuro, dargli una veste di “consulenza”. Ma per loro, di fatto, continua ad essere un prodotto da vendere. Invece di vendere il fondo, vendo la consulenza con dentro il fondo.
Il cuore del discorso è il seguente: il vero lavoro degli agenti collegati, anche se si fanno chiamare “consulenti finanziari” è quello di convincere il potenziale cliente, molto grossolanamente, che alla fine, affidando i soldi alla loro mandante invece che ad un’altra società, avrà più soldi.
Tutto il resto, poi, sono considerati inutili dettagli burocratici da superare.
L’attività di vendita ruota intorno a questo concetto: “sposta i soldi da me, invece che da tizio perché ti conviene”.
Questa è la visione della consulenza finanziaria (salvo rare eccezioni che ci sono in tutti i settori) che esiste oggi nell’industria del risparmio gestito. Molto tristemente – ma logicamente – questa visione è anche la stessa dei potenziali clienti, i quali si aspettano che il lavoro del bravo consulente finanziario sia quello di fargli ottenere, alla fine, più soldi del consulente finanziario “meno bravo”. Si tratta della visione che l’industria del risparmio gestito ha inculcato nella testa dei potenziali clienti con anni di pubblicità, articoli di giornali più o meno direttamente orientati, trasmissioni radio-televisive, ecc.
E’ la visione della consulenza-prodotto: come prodotto deve avere un risultato chiaro e facilmente identificabile affinché io lo possa scegliere fra altri prodotti simili.
La consulenza finanziaria come “processo”
Torniamo alla definizione giuridica della consulenza finanziaria che s’incentra sull’output del consulente, ovvero le raccomandazioni personalizzate ad acquistare, vendere o detenere strumenti finanziari.
Il punto fondamentale è: come si giunge a queste raccomandazioni personalizzate?
Nel caso della “consulenza-prodotto” il focus è tutto spostato sul rendimento, quando va bene sul rapporto rendimento/rischio. Poiché il cliente è stato faticosamente acquisito promettendogli, esplicitamente o implicitamente, che affidare i soldi a lui invece che ad un altro gli averebbe portato maggiori rendimenti, adesso dev’essere il “consulente”, in qualche modo, a dimostrare che le sue raccomandazioni soddisfino le aspettative che lui stesso ha generato per acquisire il cliente. Il “come”, quindi, non è cosa da condividere con il cliente. E’ l’esperto che sa “come” fare…
Il problema con questa impostazione è che si basa sullo stesso inganno sul quale si fonda l’industria dei fondi comuni d’investimento: l’idea che un esperto possa sapere quali siano gli investimenti “giusti” per il prossimo futuro.
La realtà è che non esiste una combinazione di strumenti finanziari “giusta”. Non esiste neppure una combinazione giusta per un determinato “profilo di rischio”. E non esiste neppure un modo univoco di determinare un “profilo di rischio”. Il concetto stesso di “rischio” è discutibile…
Purtroppo le cose sono molto più complesse. Fare scelte finanziarie significa fare “scelte in condizioni d’incertezza”.
La cosa più importante (ed è già molto) che può fare un consulente finanziario, se è onesto in primis con se stesso e poi con il suo cliente, è quello di offrire un corretto processo d’investimento, non promettere rendimenti totalmente fuori dal suo controllo.
Un corretto processo d’investimento implica, fra l’altro, la comprensione da parte dell’investitore delle reali aspettative sui rendimenti ed i rischi dei mercati finanziari.
Un vero consulente finanziario deve anche necessariamente fare una parte – più o meno importante, a seconda del suo cliente – di formazione finanziaria.
La prima fase del processo è sempre quella dall’identificazione del profilo del cliente. Anche questa sotto-fase richiede una parte di formazione su cosa s’intende per “profilo d’investitore”, perché è così importante, quali sono le implicazioni nel definire un profilo invece di un altro ecc.
Identificare il profilo significa inoltre definire gli obiettivi, altro aspetto non semplice.
E siamo solo all’inizio del processo.
Terminata questa prima fase si può procedere a stabilire le regole d’investimento, ovvero le strategie che si applicheranno. Come è ovvio, questa è una fase che richiede tempo, tanto tempo. Il lavoro del consulente è quello d’informare il cliente su cosa può aspettarsi applicando certe strategie in luogo di altre. Anche qui, si tratta in buona parte di fare formazione.
La consulenza di processo prevede che la soluzione al problema – ovvero definire dove investire i soldi – non sia estratta dal cappello magico del consulente, ma emerga dall’interazione fra cliente e consulente.
Stabilite le regole, la parte di redazione delle raccomandazioni diventa solo una mera esecuzione delle regole, delle strategie.
Se il cliente non ha voglia o tempo di far parte di questo processo d’interazione non potranno mai emergere le strategie d’investimento adatte alle sue caratteristiche, che può comprendere e mantenere nel tempo, in qualunque scenario di mercato futuro.
Se il cliente non è parte integrante del processo di consulenza, ricadremo sempre, sotto mentite spoglie, nella logica della vendita di un prodotto, non nella consulenza.
Consulenza-processo: una soluzione per tutti?
E’ scontato che la visone della consulenza finanziaria come consulenza di processo sia superiore a quella della consulenza-prodotto, ma non è affatto scontato che sarà la visione più diffusa in futuro.
Ci sono molte ragioni per dubitarne.
La consulenza di processo tende a “spaventare” l’investitore-cliente.
Non è qualcosa che si “vende” facilmente, non offre spunti di marketing.
Le storie vendono, la complessità allontana. E’ facile dire: “affida i tuoi soldi a noi che siamo solidi, abbiamo centinaia di sedi in tutto il mondo, abbiamo grandi esperti, gestiamo già migliaia di miliardi, ecc. ecc.”. “Non devi fare nulla, non ci sono cosa a cui pensare, non ti devi applicare. Devi solo darmi i soldi e firmare qui”.
Poi arriva la parolina magica: “f-i-d-a-t-i”.
Come è bello “fidarsi”! E’ così liberatorio…
Completamente diverso è il discorso della consulenza di processo. Si parte dalla consapevolezza che le scelte finanziarie “sono scelte in condizione d’incertezza”. Già qui il 99% degli investitori inizia ad accigliarsi… Poi gli si racconta che è un processo che richiede tempo, che la soluzione non si conosce all’inizio del processo, ma emerge dall’interazione fra il cliente ed il consulente…
Sono tutte cose che tendono ad allontanare.
Solo le persone che hanno una certa predisposizione mentale possono accedere ad un servizio di questo genere, la grande maggioranza, purtroppo, resterà intrappolata in una logica fondamentalmente ingannevole.
(1) Questo comma è stato inizialmente introdotto dall’art. 1 del d.lgs. n. 164 del 17.9.2007 in questa forma (evidenziamo le differenze dal testo attuale): “Per “consulenza in materia di investimenti” si intende la prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative ad un determinato strumento finanziario. La raccomandazione è personalizzata quando è presentata come adattaper il cliente o è basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente. Una raccomandazione non è personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante canali di distribuzione”.
Si può vedere come la precedente definizione fosse più completa specificando meglio cosa s’intenda per “personalizzazione” delle raccomandazione. Anche se la definizione attuale ha tolto questa parte, l’obbligo di fornire raccomandazioni solo se adeguate alle caratteristiche del cliente, rimane il principio cardine degli obblighi giuridici di un consulente finanziario.
Alessandro Pedone, responsabile Aduc Tutela del Risparmio
COMUNICATO STAMPA DELL’ADUC
Associazione per i diritti degli utenti e consumatori