Andare in pensione nel 2022 potrebbe costare caro. Tutta colpa dell’inflazione che erode il potere di acquisto di lavoratori e pensionati, ma soprattutto dei secondi.
Come noto, l’inflazione erode, non solo le rendite, ma anche i montanti contributivi. Cioè quei risparmi che di anno in anno ogni lavoratore accumula e sui quali, alla fine, si calcola la pensione. Detto montante rappresenta quindi un punto di partenza fondamentale per sapere se conviene o meno ritirarsi dal lavoro.
Pensione anticipata, un lusso per pochi
Discorso che vale tanto di più per i lavoratori che intendo accedere alla pensione anticipata.
Con Opzione Donna, ad esempio, la maggior parte delle lavoratrici percepisce meno di 1.000 euro al mese. Cifra che poteva andar bene fino allo scorso anno, pur considerando tante rinunce, ma che oggi risulta del tutto insufficiente con l’esplosione dell’inflazione.
La vita costa molto di più e lasciare il lavoro in anticipo rispetto ai requisiti previsti per il pensionamento ordinario sta diventando un lusso per pochi. Cioè per chi può vantare una carriera strabiliante e permettersi, di conseguenza, una pensione di tutto riguardo.
L’impatto dell’inflazione sulla pensione
Così, secondo la decima edizione del Global Retirement (GRI) Index 2022 di Natixis IM, emerge che il 2022 potrebbe essere l’anno peggiore per scegliere di andare in pensione. A memoria, solo negli anni ottanta vi fu analoga percezione, ma allora le pensioni erano calcolate interamente col sistema retributivo e l’impatto dell’inflazione di quei tempi era diverso.
Oggi, con le pensioni calcolate solo in parte col sistema retributivo e che tendono verso il sistema contributivo puro per tutti, lo scenario è diverso. L’inflazione influisce maggiormente sui risparmi pensionistici, sia pubblici che privati.
In altre parole, oggi i lavoratori rischiano, non solo di ricavare il reddito da pensione da un patrimonio impoverito, ma anche di dover assumere maggiori rischi in portafoglio per recuperare il terreno già perso. E questo vale soprattutto per coloro che si rivolgono ai fondi pensione per ottenere una rendita integrativa.
Come si rivaluta il montante contributivo
La cifra accantonata durante l’età lavorativa, vuoi mediante versamenti obbligatori, vuoi attraverso riscatti volontari, costituisce la base sopra la quale l’ente pensionistico liquida la pensione. È un po’ come un salvadanaio, un libretto di risparmio, garantito dallo Stato.
Il montante contributivo è, in sostanza, la somma di tutti i contributi versati nel tempo. È rivalutato annualmente sulla base del tasso di capitalizzazione risultante dalla variazione media quinquennale del Pil.
E qui viene il bello – o meglio, il brutto, perché questo tesoretto cresce di pari passo alla crescita del prodotto interno dell’Italia. Non segue l’andamento dei prezzi e non aumenta in base al tasso d’inflazione che quest’anno sarà del 7-8%. Mentre la crescita del Pil si stima sarà del 4% e per il 2023 è prevista una crescita nulla.
Bisogna quindi sapere che solo le pensioni sono indicizzate all’inflazione col meccanismo della perequazione automatica. Mentre il montante contributivo dei lavoratori segue un meccanismo diverso che al momento è penalizzante per tutti.
Lavorare di più?
La domanda che i lavoratori a questo punto si pongono è se conviene o meno andare in pensione quest’anno. La risposta è ovviamente negativa per le ragioni appena esposte. Non è però nemmeno certo che ritardare la pensione di qualche anno porti a particolari vantaggi.
Tutto dipende dall’andamento dell’inflazione. Se questa non accennerà a scendere, per i lavoratori si fa dura.
Non potendo nessuno fare delle previsioni, ognuno dovrà farsi i propri calcoli e valutare se e quando lasciare il lavoro. Di certo ritardare l’accesso alla pensione avrà il beneficio di mitigare l’impatto negativo dell’inflazione sulla futura rendita pensionistica. Ma si tratta sempre di conti che vanno fatti prendendo in considerazione anche altri fattori, diversi da quelli puramente economici, che non sono mai uguali per tutti.