C’è frustrazione tra la comunità internazionale sulla Corea del Nord, perché nonostante le sanzioni comminate dall’ONU e alcune delle quali hanno oltre un decennio di vita, il regime di Kim Jong-Un non sembra essere stato minimamente scalfito, anzi rilancia le minacce agli USA e ai suoi alleati. Un paio di settimane fa, il Consiglio di Sicurezza ha approvato con il voto favorevole della Cina (ed è stata la prima volta) un tetto alle importazioni di petrolio di 2 milioni di barili all’anno, che equivarrebbe a un taglio dell’offerta nello stato asiatico tra il 10% e il 30% rispetto ai livelli del 2016. Pechino ha cessato di importare carbone dalla fine del febbraio scorso, aderendo alle sanzioni internazionali, ma ha al contempo incrementato quelle di ferro, portando gli scambi bilaterali a 2,55 miliardi di dollari nel primo semestre, in crescita del 10,5% su base annua.
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Per un dato che sembra accrescere la pressione su Pyongyang, ne segue un altro che va in direzione opposta. E così, la sensazione generale è che le sanzioni avranno diversi effetti negativi sull’economia nordcoreana, ma non ne provocherebbero un collasso, né sarebbero in grado di colpire mortalmente il regime dittatoriale.
Esistono diverse ragioni per restare scettici. La prima sta nell’abitudine del 25 milioni di nordcoreani a uno stile di vita molto austero, per non dire misero. Qui sono abituati ai sacrifici e se si dovesse anche stringere ulteriormente la cinghia sui consumi energetici, non verrà vissuto come un problema così grave. Parte del petrolio in meno importato verrebbe sostituita dall’eccesso di offerta di carbone vigente nel paese, ora che non si riesce ad esportarlo del tutto.
Il doppio gioco di Russia e Cina
C’è, poi, un aspetto non meno interessante in tutta questa vicenda sulla Corea del Nord: mancano dati ufficiali.
Pyongyang non ne fornisce, non fa nemmeno parte dell’ONU e quel poco che sappiamo del suo pil è frutto di statistiche della banca centrale sudcoreana, così come sui commerci internazionali grazie a Pechino. Ma chi ci dice che queste cifre, specie quelle fornite dai cinesi, siano veritiere? Se la Cina decidesse di continuare ad esportare petrolio nel paese, potrebbe farlo senza darne conto con cifre ufficiali. E quand’anche mantenesse la parola data all’amministrazione Trump, ci penserebbero i russi a fare saltare i conti di Washington.
In pochi sanno forse che per un piccolo tratto del suo territorio, la Corea del Nord confina anche con la Russia. E pare che negli ultimi tempi gli scambi tra i due paesi, anziché diminuire, siano talmente aumentati, che i traffici tra il porto di Vladivostok e quello di Rajin hanno spinto Pyongyang a inaugurare quest’anno una rotta tra le due città, percorsa tramite battello. Un rapporto del think-tank americano Fondazione per la Difesa delle Democrazie avrebbe trovato che la società immobiliare Velmur, con sede a Singapore, verrebbe utilizzata da russi e nordcoreani per intrattenere relazioni finanziarie mascherate. Pare che tra febbraio e maggio di quest’anno, l’ente avrebbe acquistato carburante diesel per 7 miliardi di dollari dalla russa IPC e che successivamente avrebbe ricevuto pagamenti in valuta pesante da parte della Corea del Nord.
Il carburante, secondo il rapporto, sarebbe stato spedito dal porto di Vladivostok. (Leggi anche: Economia Corea Nord in ginocchio senza Cina, ecco perché Pechino non rompe)