Quest’anno, i fondi stranieri hanno acquistato 22 miliardi di dollari netti di bond emessi dalla Corea del Sud, mentre ne hanno liquidato per 41 miliardi da India, Indonesia, Taiwan, Messico, Turchia e Sudafrica, le sei altre principali economie emergenti. Eppure, proprio lo stato asiatico a inizio anno fu colpito dal Coronavirus più di tutti all’infuori della Cina. In breve, però, Seul ha saputo affrontare e superare l’emergenza, riuscendo a contenere il numero dei positivi a meno di 11.000 unità e il tasso di mortalità a circa il 2,5%, oltre 6 volte più basso che in Italia e in buona parte d’Europa, meno della metà che nella stessa America.
Coronavirus: il modello Corea del Sud per limitare la diffusione del Covid-19
Ma solo marginalmente i successi nella lotta contro la pandemia sono stati i responsabili degli afflussi dei capitali. La verità è che la Corea del Sud è un mercato emergente sui generis, vantando ormai un pil da paese avanzato, sostanzialmente simile a quello italiano, tanto per fare un raffronto. E il suo debito pubblico gode di valutazioni molto alte delle agenzie di rating: “Aa2” per Moody’s, “AA” per S&P e “AA-” per Fitch.
I bond coreani sono diventati “safe asset” in Asia, quasi come i Bund per l’Eurozona. Ma l’aspetto più interessante sta nella curva dei rendimenti offerti, che si mostra più generosa di quella di altri mercati emergenti. Ad esempio, ancora oggi il decennale offre l’1,50% contro meno dell’1,15% della Thailandia o lo 0,47% di Taiwan, ai livelli di inizio, mentre il biennale è sceso di quasi una quarantina di centesimi in area 0,90%. Questo è dovuto alla politica monetaria ancora non eccessivamente espansiva, se è vero che in aprile l’inflazione nel paese si sia attestata ad appena lo 0,1% annuo e i tassi siano fissati allo 0,75%. Di questi tempi, tassi reali positivi sono rari anche presso i mercati emergenti.
Il fattore cambio
C’è, poi, il fattore cambio a incoraggiare gli afflussi. Quest’anno, il won ha perso quasi il 6% contro il dollaro, ma sostanzialmente scambia adesso agli stessi livelli di 10 anni fa. In quest’ultimo decennio, tra alti e bassi, il tasso di cambio ha oscillato all’interno di un range del 18%, considerando la punta massima e quella minima toccate contro il dollaro USA. Dunque, a fronte di una valuta sostanzialmente stabile e di un rating molto solido, i fondi stranieri possono beneficiare di rendimenti più alti di quelli vigenti nel Nord America, in quasi tutta Europa e in Giappone. Ad esempio, il trentennale offriva ieri l’1,65% contro l’1,27% dell’omologo Treasury e il -0,12% del Bund.
Questi livelli di rendimento più elevati dipendono anche dalla forte propensione dei coreani a richiedere dollari. L’alta domanda di debito in valuta straniera, quindi, crea pressioni rialziste sui rendimenti in won. Peraltro, la banca centrale ha istituito un fondo da 20.000 miliardi (15 miliardi di euro) per l’acquisto di obbligazioni private e carta cambiaria, alimentando aspettative rialziste sui prezzi dei bond domestici. Anche i rendimenti dei titoli di stato denominati in dollari hanno registrato discreti apprezzamenti quest’anno, con il bond settembre 2023 e cedola 3,875% (ISIN: US50064FAK03) a segnare +2% e rendendo l’1,10%, in linea con i rendimenti in valuta locale, segno che il mercato nel medio-lungo termine non si aspetti variazioni significative del cambio.