Le quotazioni dell’oro continuano a sostare nei pressi dei 1.500 dollari l’oncia, ma arretrando rispetto ai massimi toccati a settembre, quando oltrepassarono i 1.550 dollari, ripiegando in area 1.485-90. D’altronde, sappiamo che tra la fine dell’estate e le prime settimane d’autunno il metallo beneficia della festa del Diwali in India, caratterizzata da scambi di regali di bigiotteria e dall’avvio della stagione dei matrimoni. Ma negli ultimi anni assume un ruolo sempre più importante l’investitore istituzionale.
La stragrande maggioranza degli acquisti arriva, però, solamente da tre banche centrali e tutte asiatiche. Sono quelle di Russia, Turchia e Cina. Nel terzo trimestre, sono risultate avere acquistato un totale di oltre 128 tonnellate sulle 156 dell’insieme delle banche centrali nel periodo, incidendo per una quota dell’82%, stando ai dati del World Gold Council. In particolare, la Turchia ha ammassato tra le sue riserve altre 71,4 tonnellate, arrivando a oltre 380. La Russia ha fatto la sua parte con quasi 35 tonnellate e alla fine di settembre ne deteneva per ben 2.242 tonnellate. La Cina ha aggiunto alle sue riserve 21,8 tonnellate, portandole a 1.957.
La corsa dell’oro in Asia minaccia il dollaro, riserve costruite con la crisi
Come mai questa corsa all’oro specificatamente nei tre paesi? Per le banche centrali, l’oro funge da garanzia, essendo un asset percepito sui mercati come solido, un rifugio per i casi di tensione. Fino a quando l’Accordo di Bretton Woods aveva retto, oltre una quarantina di stati dell’orbita occidentale legava ufficialmente il valore delle loro monete nazionali al dollaro e quest’ultimo a sua volta all’oro, segnalandone la convertibilità, ossia anche la solidità di fondo.
La garanzia dell’oro in Asia
Il caso più eclatante è stato forse della Svizzera, la cui banca centrale si è liberata tra il 2000 e il 2008 di ben 1.500 tonnellate. Vero è che possederne oltre 2.500 per il piccolo stato alpino potesse sembrare eccessivo, ma probabile che Zurigo abbia sbagliato i conti, finendo per cedere un asset, che dopo la fine delle vendite risultava essersi apprezzato sui mercati internazionali fino a 6 volte in più di inizio Millennio. Negli ultimi anni, un po’ tutte le banche centrali sembrano avere recuperato quel minimo di consapevolezza sull’esigenza di non sottovalutare la garanzia aurea. Germania e Olanda hanno persino rimpatriato l’oro che dopo la Seconda Guerra Mondiale avevano depositato presso altri istituti, perlopiù a New York e Londra, per ragioni di sicurezza.
Ma sono Russia, Turchia e Cina a comprare il metallo, avendo l’esigenza di mostrarsi quanto più solidi possibile sul piano finanziario. In un certo senso, stanno preparando le condizioni per sganciarsi dalla dipendenza verso il dollaro, così da garantire autonomamente le rispettive monete nazionali senza la necessità di detenere quantità elevate di valuta americana a riserva. Ciò vale particolarmente per lo yuan, che Pechino punta a internazionalizzare e a rendere un riferimento per gli scambi in Asia. Per il momento, però, la Banca Popolare Cinese di oro ne possiede appena un quinto di quanto ne abbia la Federal Reserve. E questo sul piano della credibilità conta parecchio.
Tuttavia, la direzione sembra tracciata, pur con differenze tra le varie banche centrali. La Cina può continuare tranquillamente ad accumulare oro, grazie agli ingenti surplus commerciali, e la Russia stessa accede ai dollari per farlo, tramite le esportazioni di petrolio.