A fine agosto, il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha annunciato un cambiamento strutturale di policy per gli USA. L’inflazione verrà tollerata sopra il target del 2%, così da compensare i periodi in cui essa è risultata inferiore a tale soglia, mentre i tassi non verranno più alzati quando il mercato del lavoro avrà più che centrato la piena occupazione. La politica monetaria diverrà più accomodante. La prima banca centrale del mondo non alzerà il costo del denaro quando il tasso di disoccupazione dovesse scendere sotto il livello compatibile con la piena occupazione, in quanto non vi è più timore che ciò destabilizzi i prezzi.
Dunque, perdiamo un riferimento cruciale per capire se e quando la Fed alzerà i tassi d’interesse. Ad oggi, quando l’inflazione USA si aggira intorno al 2% e la disoccupazione scende sotto il 4%, soglia all’incirca ritenuta di un mercato del lavoro in equilibrio, dobbiamo attenderci un atteggiamento più restrittivo dell’istituto sui tassi. Gli investitori si orientano di conseguenza: tassi in rialzo deprimono le quotazioni azionarie e dei bond.
Ma in un ambiente inflazionistico, le azioni si mostrano un investimento preferibile alle obbligazioni. Prezzi in crescita, infatti, sono espressione di fatturati aziendali più alti, mentre gli interessi reali offerti dal mercato a reddito fisso si riducono.
Bond emergenti favoriti dalla svolta Fed sull’inflazione
Investitori “traditi”
Con la svolta Fed, questo fenomeno sarà d’ora in avanti slegato dal contesto dei tassi. L’inflazione salirà prima che questi vengano alzati, per cui potrà salire senza che l’istituto intervenga. Questo significa che verrà accettata una maggiore perdita del potere di acquisto. Si tornerà a una condizione di “repressione finanziaria” simile a quella vista l’ultima volta negli anni Settanta e fino agli inizi degli anni Ottanta. Allora, i titoli di stato americani o Treasuries vennero ribattezzati anche come “certificati di confisca”, dato che i rendimenti offerti arrivarono a risultare nettamente inferiori ai livelli d’inflazione.
Nell’Eurozona, viviamo già da anni una situazione simile, non perché vi sia inflazione, quanto perché fino alle medio-lunghe scadenze troviamo solamente rendimenti sovrani nulli o negativi, questi ultimi mai visti prima. Se la BCE dovesse rispondere alla Fed anch’essa con una maggiore tolleranza dei livelli d’inflazione, per quanto i rendimenti nominali nell’area salirebbero per scontare il surriscaldamento dei prezzi al consumo, in termini reali scenderebbero ulteriormente, data l’amplissima liquidità sui mercati.
Siamo entrati in un mondo, cioè, in cui i risparmi non saranno remunerati (lo avvertiamo da anni sulla nostra pelle, ma abbiamo sperato e pensato che si trattasse di un fenomeno transitorio), perché i governi punteranno a sostenere con le buone e, soprattutto, le cattive consumi e investimenti. A gioire saranno i debitori, pubblici e privati. Godranno di bassi tassi d’interesse reali, se non negativi, e l’incidenza delle passività tenderà a ridursi rispetto ai redditi (pil per gli stati). E statene certi, solo quando i livelli di indebitamento di stati, famiglie e imprese risulteranno scesi a livelli compatibili con i tassi di crescita dell’economia, le banche centrali torneranno a stringere le condizioni monetarie.
Già iniziato l’esproprio dei creditori, vittoria dei debitori