Il vertice OPEC+ è stato un fallimento venerdì scorso. Nessun accordo tra gli stati membri sull’aumento della produzione di petrolio. E così, le quotazioni del Brent stamattina hanno superato i 77,50 dollari al barile, toccando i massimi dall’autunno 2018. Tra gli analisti, c’è chi sostiene che tenderanno a 100 dollari. Tutto ciò avrebbe contraccolpi significativi sul mercato obbligazionario globale. Vediamo perché.
Il rialzo dei prezzi del petrolio surriscalda l’inflazione presso le economie importatrici. Di conseguenza, i rendimenti dei bond salgono. E’ un po’ quanto accaduto nei primi mesi di quest’anno.
Mercato obbligazionario, differenze tra aree
Ma l’impatto sul mercato obbligazionario non sarebbe dappertutto uguale con il greggio verso i 100 dollari. Gli stati esportatori si avvantaggiano chiaramente dei rincari. Il Golfo Persico, molto dipendente dalla materia prima, tende a registrare alti deficit fiscali nei periodi di basse quotazioni. Viceversa, quando queste si tengono elevate, i bilanci statali chiudono anche in forte attivo.
Ne consegue che le emissioni di debito sul mercato obbligazionario tendono a ridursi con le alte quotazioni. Inevitabile l’impatto positivo sui prezzi dei titoli, anche per il contrarsi del rischio sovrano percepito. Dunque, il petrolio verso i 100 dollari sosterrebbe i bond degli stati esportatori e li colpirebbe sui mercati importatori. C’è da aggiungere, tuttavia, che l’accumulo di liquidità da parte dei numerosi fondi sovrani esistenti tra gli stati esportatori tende ad impattare positivamente sui mercati finanziari globali.
Più alto il prezzo del petrolio e maggiori gli incassi dei produttori, i quali dovranno impiegarli in parte sui mercati per metterli a frutto in valute straniere forti come il dollaro e l’euro. In altre parole, il maxi-barile fa affluire capitali a favore di asset come azioni e obbligazioni, specie sovrane.