Il governo presieduto dalla premier Giorgia Meloni ha scritto nero su bianco sul Documento di economia e finanza (DEF) che quest’anno ci saranno altri 3 miliardi di euro destinati al taglio del cuneo fiscale. Le risorse derivano dal miglioramento atteso dei conti pubblici. Il disavanzo fiscale scenderebbe dal 4,50% fissato con la legge di Bilancio al 4,35% tendenziale. Quello 0,15% di calo sarà utilizzato per finanziare l’abbattimento dei contributi INPS per i lavoratori dipendenti. Nel dettaglio un altro punto percentuale servirebbe a favore dei redditi lordi fino a 25.000 euro l’anno e un altro per i redditi tra 25.000 e 35.000 euro.
I contributi INPS versati da lavoratori dipendenti, autonomi e imprese servono per pagare gli assegni a chi attualmente si trova in pensione e ad alimentare il montante sul quale un giorno calcolare la propria pensione. Se il governo riduce tali contributi, le pensioni saranno più basse? La risposta è no. Lo ha confermato lo stesso esecutivo in sede di presentazione del DEF: l’importo delle future pensioni non cambierà, in quanto lo stato verserà i contributi al posto del lavoratore. In altre parole, copre il governo il “buco” nei conti INPS.
Questo significa, però, che se il taglio del cuneo fiscale dovrà essere definitivo e non temporaneo, ogni anno il governo dovrà reperire le risorse necessarie a coprire l’ammanco. Poiché Meloni ha promesso una riduzione di cinque punti entro la legislatura, il costo salirebbe a 16 miliardi di euro all’anno. Soldi che dovranno essere trovati o tagliando altre voci di spesa o aumentando altre entrate o un mix delle due misure. Ci sarebbe un’alternativa, anzi due: abbassare l’importo delle future pensioni e/o allungare l’età media del pensionamento effettivo in Italia.
Pensioni e taglio cuneo fiscale legati
In sostanza, se da un lato l’INPS riceve meno contributi, dall’altro si potrebbe prevedere che i beneficiari ricevano in futuro assegni un po’ più bassi. Si dirà che non sia giusto. Del resto, il governo lo ha escluso. Dobbiamo ammettere, però, che sarebbe l’unica soluzione sostenibile sul piano previdenziale. Tra l’altro, non sarebbe neppure detto che il risultato per il lavoratore debba essere necessariamente negativo. L’abbattimento drastico del cuneo fiscale consentirebbe all’impresa, a parità di costo del lavoro, di aumentare le retribuzioni lorde. Inoltre, favorirebbe la creazione di nuova occupazione. E in un mercato in cui ci sono più persone che lavorano, gli stipendi tendono a crescere per la minore offerta di manodopera disponibile. A loro volta, stipendi maggiori implicano maggiori contributi versati all’INPS, ossia pensioni future più alte.
Diremmo che ciò che facciamo uscire dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Ciò sarebbe particolarmente vero per i lavoratori più giovani, i quali avrebbero tutto il tempo di beneficiare dell’eventuale miglioramento del mercato del lavoro. Il problema è che l’opinione pubblica non accetterebbe questo scambio. La conservazione dello status quo è tipica di ogni società, specie laddove le incrostazioni corporative sono più forti. Lo stiamo verificando in queste settimane in Francia. Un aumento per niente drastico e irragionevole dell’età pensionabile ha scatenato uno scontro sociale durissimo con conseguenze politico-istituzionali dirompenti.
Attenzione: se anche tagliassimo in proporzione gli importi delle pensioni, il taglio del cuneo fiscale all’impatto andrebbe finanziato lo stesso, altrimenti l’INPS riceverebbe minori contributi. Per questo, la soluzione più efficace sarebbe di prolungare la permanenza al lavoro di quelle fasce di lavoratori che ancora oggi riescono ad accedere a forme di pensionamento anticipato anche prima dei 60 anni di età.