Cos’è il Great Resignation e perché le aziende italiane devono cambiare mentalità

Milioni di persone stanno lasciando il posto di lavoro, un fenomeno noto come Great Resignation. E sta prendendo piede anche in Italia.
3 anni fa
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Great Resignation

In America, nel mese di novembre un numero record di 4,5 milioni di lavoratori ha lasciato il proprio posto di lavoro. E’ stato il 3% degli occupati, la percentuale più alta almeno dall’anno 2000. Il fenomeno del Great Resignation, letteralmente Grandi Dimissioni, è sempre più diffuso negli USA e ha avuto un colpo d’acceleratore proprio durante la pandemia.

Il mercato del lavoro americano è sostanzialmente in piena occupazione. Prima della pandemia, il tasso di disoccupazione si aggirava intorno al 3,5%, ai minimi da fine anni Sessanta.

Nel novembre scorso, si attestava al 4,2%. Dunque, i lavoratori hanno il coltello dalla parte del manico, essendo divenuti una risorsa scarsa. I talenti (o coloro che suppongono di essere tali) possono permettersi di andare via dalla propria azienda in cerca di uno stipendio più alto o di condizioni lavorative migliori.

In Italia, dove l’occupazione è molto bassa e il tasso di disoccupazione resta superiore al 9%, il Great Resignation non è ancora così diffuso, ma inizia a prendere piede. Nel 2020, anno della pandemia, 1,5 milioni di persone hanno lasciato il proprio posto di lavoro, mentre nel secondo trimestre del 2021 sono stati in 484.000 a dimettersi, in crescita tendenziale dell’85%.

Great Resignation, cause di un fenomeno sempre più diffuso

Cosa sta succedendo nel mondo occidentale? La pandemia è stata in un certo senso una sorta di reset per il mercato del lavoro. Pratiche consolidate nei decenni, se non nei secoli, sono state spazzate via in un attimo. Il telelavoro o “smart working” ha sostituito per necessità il lavoro in presenza, ove possibile. Molti lavoratori hanno scoperto che non fosse necessario infilarsi in una strada o autostrada per recarsi ogni giorno in ufficio, quando le stesse mansioni possono essere svolte da casa o altro luogo. E così, hanno iniziato a pretendere un trattamento diverso dal proprio capo: basta l’obbligo della presenza e, soprattutto, i risultati non dipendono dal monte-ore trascorso in ufficio.

C’è da dire che negli USA come in Europa, la pandemia ha costretto i governi ad erogare sussidi molto generosi alle famiglie per indennizzarle delle perdite accusate a causa delle restrizioni anti-Covid. Questi sostegni stanno tuttora incoraggiando molti lavoratori a sfidare la sorte e a pretendere migliori condizioni di lavoro. E con un’inflazione al 7%, l’appeal di molti posti è venuto velocemente meno. In Italia, già da tempo le aziende lamentavano scarsa disponibilità di manodopera poco qualificata, addebitandola al reddito di cittadinanza. Il sussidio ha certamente disincentivato al lavoro gli operai poco qualificati, ma in generale sono i “millenials” a non accettare retribuzioni basse e orari di lavoro indefiniti.

Le aziende italiane partono male. Molte di esse rifiutano lo “smart working” come modalità di organizzazione del lavoro, non volendo rinunciare al controllo “fisico” dei dipendenti. Addirittura, abbiamo un ministro della Funzione pubblica ad osteggiarlo per i dipendenti statali. Per non parlare delle retribuzioni, tra le più basse del mondo occidentale e in calo negli ultimi decenni in termini reali. Il Great Resignation da noi rischia di assumere le sembianze di un’accelerazione della fuga dei cervelli, ma anche della manodopera non qualificata. Certa imprenditoria “stracciona”, che si rivolge ai tiggì per lamentare la scarsa disponibilità dei candidati ad accettare offerte di lavoro presunte “imperdibili”, di questo passo scomparirà dal mercato. E non sarà un male.

Cosa chiedono i lavoratori

Il miglioramento delle offerte di lavoro poggia su due pilastri: l’aspetto economico e le condizioni non retributive. La legge di mercato vuole che se l’offerta è relativamente scarsa, i prezzi devono salire. In questo caso, sono le retribuzioni a dover essere alzate. In più, il lavoratore reclama sempre più orari certi, possibilità di lavorare da remoto e di carriera. Tutti elementi che spesso mancano in molte aziende italiane.

Il Great Resignation minaccia questa mentalità retriva e, però, può rappresentare un impulso al cambiamento. Lo “smart working” incrocerà domanda e offerta di aziende con sede al Nord e lavoratori residenti al Sud. I secondi non saranno necessariamente costretti a spostarsi per avere un’occupazione.

Certo, i numeri dicono anche che con un tasso di occupazione molto basso al Sud, il Great Resignation con ogni probabilità sarà confinato al Centro-Nord nel Bel Paese. Difficile che un meridionale lasci il suo posto di lavoro per reclamare migliori condizioni, quando è già un miracolo che porti a casa lo stipendio. Ma la diffusione dello “smart working” cambierebbe le prospettive. Laddove esso non fosse possibile, la minore disponibilità dei più giovani a trascorrere al lavoro ore interminabili per retribuzioni spesso infime spingerà al cambiamento. Le aziende che non vorranno adeguarsi al mercato ne finiranno fuori. Una nuova generazione di imprenditori può emergere.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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