Il secondo trimestre si è chiuso per la prima volta con un utile di 2 miliardi di dollari e ricavi per 52,9 miliardi, di cui 4,3 provenienti dagli store fisici. Amazon si mostra sempre più un colosso internazionale delle vendite online e grazie a una capitalizzazione in borsa di 886 miliardi (+53% da inizio anno), il suo fondatore Jeff Bezos risulta essere ormai l’uomo più ricco al mondo e il più ricco della storia moderna con un patrimonio stimato in oltre 143 miliardi. Tra analisti e trader è partita la scommessa su chi raggiungerà per prima i 1.000 miliardi di valore in borsa, tenuto conto che Apple resta in testa 940 miliardi, ma che segnala una crescita molto più lenta.
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Ma non solo vendite online. Banchieri e operatori finanziari sono terrorizzati dall’idea che Amazon stia per sbarcare anche nel loro mondo. Hanno torto: il colosso si muove già tra loro, senza che molti se ne siano accorti. Avete mai sentito di un programma chiamato Amazon Lending? Si tratta di prestiti che la società eroga alle imprese che utilizzano il suo marketplace per vendere, con ciò ottenendo due risultati: fare profitti sui prestiti e fidelizzare la clientela, attirandone di nuova.
A marzo, Bezos ha balenato una nuova idea: offrire agli abbonati Prime, quelli che pagano (negli USA) 99 dollari all’anno, un nuovo servizio di natura finanziaria, ossia un conto corrente per l’accredito dello stipendio.
Amazon e i servizi finanziari
Il conto per l’accredito dello stipendio, peraltro offerto gratuitamente ai 100 milioni di abbonati Prime, non farebbe entrare denaro sonante nell’immediato, tutt’altro. Eppure, avrebbe un grande valore, vale a dire consentirebbe ad Amazon di capire come i propri clienti gestiscono il denaro nel corso del mese. Per un operatore attivo nelle vendite online, oro che cola. I “big data” sono preziosi nel mondo odierno e chi vi ha accesso gode di un vantaggio competitivo fatale per la concorrenza. Decine di miliardi di dati transitano quotidianamente online attraverso PC, tablet, smartphone, ma anche carte di pagamento, etc. Trattasi di una sterminata quantità di informazioni, che va categorizzata e analizzata per capire il comportamento dei consumatori. Amazon, grazie alle sue centinaia di milioni di clienti nel mondo, è tra i pochi giganti del web a godere di tali informazioni.
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Il “paycheck account” sarebbe lo specchietto per le allodole con cui attirare il cliente: “ti offro un servizio gratis, quando altrove magari paghi un canone minimo mensile e grazie a te sono in grado di comprendere come e quanto spendi”. E mettete che Amazon si accorga che un suo cliente stia incorrendo in una crisi di liquidità per la non perfetta coincidenza tra incassi e pagamenti; volete che non gli proponga prima o poi un prestito per tamponare tale “gap” e renderlo felice? O pensate a quei clienti che mensilmente riescano a risparmiare: Amazon finirà per offrirgli un’idea di investimento.
Questo secondo step implicherebbe la discesa in campo della società nel mondo della finanza. Sarebbe solo questione di tempo. Oltre ai “big data”, Amazon avrebbe dalla sua un vantaggio non di poco conto per sbarcare sui mercati finanziari: avendo milioni di potenziali investitori tra i suoi abbonati, spunterebbe con i fondi, Etf inclusi, commissioni basse con cui allettare la propria clientela. “Se devi investire 30.000 dollari in un dato fondo, perché non lo fai attraverso di me, che ti offro la possibilità di accedervi a condizioni migliori?” Di questo passo, non possiamo nemmeno escludere che Amazon inizi a gestire in futuro più o meno direttamente le masse patrimoniali (“wealth management”). Certo, il successo del gigante farebbe sì che banche e investitori istituzionali paradossalmente cerchino di sventare sul nascere che possa affacciarsi al loro mondo. Come si potrebbe accettare un concorrente temibile, che non sarebbe ad oggi nemmeno soggetto ai controlli e alle limitazioni delle autorità di vigilanza?
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In effetti, perché mai una banca dovrebbe sottoporsi a limiti stringenti nel prestare denaro, mentre Amazon potrebbe farlo senza regole, giovandosi di un clima di crescente disintermediazione? Il problema è reale e non riguarda certamente solo la creatura di Bezos. Che dire dell’industria fintech, che oggi sostanzialmente opera come un istituto di credito e finanziario, ma senza i relativi vincoli? A inizio anno, una direttiva comunitaria ha obbligato le banche a consentire a terzi di accedere alle informazioni possedute in via esclusiva sui loro clienti, praticamente privandole dell’unico vantaggio ad oggi detenuto rispetto alle società non bancarie. Che prima o poi nella UE, ma così come anche negli USA e le altre grandi economie mondiali, non si obbligheranno i giganti del web a fare lo stesso, almeno con riferimento ai dati sensibili sul piano finanziario, accettando in cambio che possano operarvi?
Questo sarebbe lo scambio in previsione accettabile per tutti: sì ad Amazon come creditore e intermediario finanziario, purché condivida con il mondo bancario-assicurativo-finanziario parte dei “big data” a cui ha accesso grazie alla sterminata clientela.
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