Quando mercoledì mattina il premier Mario Draghi si presentava al Senato per fare il punto della crisi del suo governo, tutti concordavano che non sarebbe stato facile ricomporre la maggioranza di “unità nazionale”. Tuttavia, il discorso pronunciato a Palazzo Madama aveva diffuso un certo ottimismo nelle ore seguenti, spento nel primissimo pomeriggio dall’aut-aut del centro-destra. Lega e Forza Italia chiarivano che avrebbero continuato a sostenere l’esecutivo senza il Movimento 5 Stelle. A fare saltare i nervi ai due partiti sarebbe stato il riferimento del premier durante il suo intervento a due temi scottanti cari al centro-destra: le licenze agli stabilimenti balneari e le proteste dei tassisti.
Nelle scorse settimane, la categoria aveva indetto diverse manifestazioni per protestare contro la riforma relativa alle licenze taxi e alle autorizzazioni NCC (Noleggio Con Conducente), allo studio del governo. Entro sei mesi dall’approvazione del DDL Concorrenza, l’esecutivo è autorizzato dal Parlamento a rivedere la disciplina sull’offerta dei servizi di mobilità tramite l’utilizzo di applicazioni web e quella sui vincoli territoriali.
Proteste dei tassisti contro riforma licenze e Uber
Partiamo proprio da quest’ultima. Sul piano normativo i taxi in Italia sono servizi di mobilità territoriale, così come gli autobus di linea e le metro. In teoria, ciò significa che se il Comune di Fiumicino rilascia licenze ai tassisti, questi non possono offrire servizio primario a Roma. Invece, negli ultimi anni sta accadendo che molti tassisti svolgano servizio nei grossi centri urbani, pur essendo autorizzati a operare primariamente in comuni limitrofi. Ci sono, poi, anche moltissimi abusivi, cioè persone che svolgono la professione senza essere stati autorizzati.
Da questo punto di vista, le proteste dei tassisti appaiono almeno legittime. La riforma del governo Draghi puntava, infatti, ad eliminare il vincolo di territorialità, di fatto consentendo ai tassisti di operare in tutta la regione in cui eventualmente hanno ricevuto la licenza. La categoria teme, però, che ciò porti a una concentrazione dell’offerta nelle principali aree urbane, che risultano essere anche le più remunerative.
E poi c’è Uber. I servizi di prenotazione tramite app sono già riconosciuti da un Dpcm del 2019, per cui i tassisti temono che la volontà di riprendere la disciplina tramite decreto legislativo o legge sarebbe un modo per superare i limiti di un Dpcm, il quale non potrebbe derogare agli obblighi e ai divieti contenuti dalle leggi del settore. In altre parole, il governo Draghi avrebbe spalancato le porte a multinazionali come Uber, consentendo loro di accumulare licenze e di operare su tutto il territorio nazionale grazie a un piano normativo meno stringente di quello a cui sono tenuti ad operare i tassisti. Con il tempo, ciò porterebbe a un mercato oligopolistico, cioè nelle mani di pochi operatori di grosse dimensioni. Le tariffe, anziché scendere, nel migliore dei casi rimarrebbero inalterate.
Valore licenze taxi a rischio
Il problema ruota tutto attorno al crollo di valore delle licenze, che una eventuale liberalizzazione provocherebbe. Le proteste dei tassisti si concentrano su questo tema molto sensibile. Gli operatori spesso acquistano la licenza prendendo a prestito un mutuo con l’obiettivo di rivenderla quando andranno in pensione. In sostanza, una sorta di buonuscita che verrebbe a mancare e che, soprattutto, avrebbe reso vani i sacrifici passati.