E anche la Cassa di Risparmio di Genova, in sigla Carige, è stata travolta dalla montagna dei crediti deteriorati, noti nella terminologia internazionale con l’espressione anglosassone “Non performing loans”. Di cosa parliamo? Trattasi dei prestiti a rischio delle banche, denaro finito in mano a imprese e famiglie, che sconta una probabilità anche minima di non essere più restituito, almeno non per intero. I crediti deteriorati possono suddividersi in tre sotto-gruppi: esposizioni scadute e/o sconfinanti; le inadempienze probabili o “unlikely to pay” e le sofferenze.
Perché le banche italiane hanno paura delle nuove norme sui crediti deteriorati
In Italia, i crediti deteriorati non costituivano una voce allarmante dei bilanci bancari fino al 2008, anno in cui esplose la crisi finanziaria mondiale, scatenata proprio dalle inadempienze dei mutuatari “subprime” americani. Fino a quel tempo, gli Npl ammontavano alla media del 6% rispetto al valore totale delle erogazioni per un controvalore di appena una sessantina di miliardi, mentre nel 2016 raggiungevano l’apice del 19% e circa 360 miliardi in assoluto.
Le cifre dei crediti deteriorati in Italia
Al settembre scorso, le banche italiane erano ancora alle prese con crediti deteriorati lordi per 240 miliardi (82 netti), il 14% del totale degli impieghi, di cui 120 miliardi relativi alle sofferenze (40 netti) e il 22% alle inadempienze probabili.
E si consideri che all’atto dell’erogazione di un prestito, le banche pretendono che il debitore conceda garanzie reali (ipoteche su beni immobili o pegno su beni mobili) e personali (fideiussione) per minimizzare le perdite nel caso di inadempienza. Si stima che circa la metà dei crediti deteriorati risulti coperta da tali garanzie. Con questi numeri, si capisce come la gravità del fenomeno sarebbe inferiore a quella che si percepirebbe alla sola lettura dei dati lordi.
Nel 2017, le banche italiane hanno ceduto sul mercato a terzi Npl per 72 miliardi di euro lordi, a cui si sarebbero aggiunti altri 80 miliardi o più nel 2018. A fronte di tali smaltimenti, i nuovi Npl sono cresciuti nel terzo trimestre dello scorso anno del 2,4%, in decelerazione rispetto all’ultimo trimestre del 2017. Questo significa che il ritmo con cui i nostri istituti starebbero accumulando nuovi crediti a rischio sta rallentando e con le cessioni in corso, lo stock complessivo dovrebbe ridursi in rapporto al totale degli impieghi, segnalando un miglioramento dei ratios patrimoniali.
Come le banche italiane gestiranno i crediti deteriorati. Ecco la bad bank all’italiana
Il nodo delle cessioni dei crediti deteriorati
Che cosa succede con la cessione dei crediti a operatori specializzati? La banca cedente generalmente subisce una perdita, pari alla differenza tra il valore iscritto al bilancio per il credito ceduto, al netto delle svalutazioni, e il prezzo di vendita.
Per questo, all’inizio del 2016 e dopo settimane di intense trattative con Bruxelles, il governo Renzi annunciò il varo della cosiddetta GACS, la garanzia pubblica che lo stato appone alle cessioni dei crediti deteriorati, anche se solo relativamente alla porzione “senior”, quella qualitativamente migliore e la più sicura, al fine di sostenerne i prezzi. Le restanti porzioni “mezzanine” e “junior” continuano ad essere sprovviste di garanzia statale.
In tema di crediti deteriorati, lo scorso anno è arrivata una novità importante dalla Vigilanza della BCE su proposta della Commissione europea, che prende il nome di “addendum”, il cui scopo consiste nell’accelerare lo smaltimento degli stock a rischio a livelli contenuti, praticamente sotto il 5% lordo e il 2,5% netto. Come? A partire dagli Npl iscritti a bilancio dall’aprile 2018, le banche dell’Eurozona dovranno provvedere alla loro copertura integrale entro 2 anni, se sprovvisti di garanzia, entro 7 anni per quelli garantiti.
Lo spread buono si allarga, per le banche italiane altra buona notizia che si aggiunge agli Npl