Settimana cruciale per la Commissione d’inchiesta sulle banche, che chiamerà in questi giorni a testimoniare il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, e l’ex ad Unicredit, attuale presidente di Rothschild, Federico Ghizzoni. Si aspettano audizioni infuocate, con l’attenzione mediatica e politica concentrata perlopiù sul caso Boschi, ovvero del presunto attivismo dell’ex ministro delle Riforme e oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio per Banca Etruria, di cui è stata azionista, il cui padre Pierluigi è stato vice-presidente e il fratello a capo del settore crediti.
Per quanto il caso Boschi appassioni gli amanti delle cronache politiche, esso non rappresenta il cuore della crisi delle banche e della sua cattiva gestione da parte di tutti i soggetti coinvolti. Se davvero i parlamentari di tutti gli schieramenti volessero cercare di fare luce su quant’è accaduto nell’ultimo decennio, bisognerebbe almeno porre queste seguenti quattro domande ai testimoni illustri e protagonisti di questo finale avvelenato di legislatura. Subito dopo il giorno di Natale, infatti, il Parlamento verrà sciolto (sono rumors più che attendibili) e la Commissione non potrà più operare, essendo un organo parlamentare. Dunque, restano poche ore per fare domande realmente finalizzate a capirci qualcosa di più.
1) A Visco, in qualità di controllore delle banche, dovrebbe essere chiesto come mai Bankitalia non sia intervenuta 10 anni fa, quando MPS rilevò Antonveneta da un consorzio guidato da Santander per la cifra smisurata di 9 miliardi, quando gli spagnoli l’avevano comprata solo pochissimi mesi prima per 6,6 miliardi e tenuto conto che l’istituto veneto avesse maturato nel 2006 un utile netto di appena 408 milioni? Via Nazionale era guidata allora non da Visco, bensì da Mario Draghi.
2) Al ministro dell’Economia dovrebbe essere chiesto come mai dal suo insediamento nel febbraio 2014 fino alla fine del 2015 non abbia trovato qualche minuto del suo prezioso tempo per fare presente nei consessi europei che la nuova disciplina sui salvataggi bancari, nota anche come “bail-in”, andasse cambiata o almeno rinviata per la sua entrata in vigore, effettivamente avvenuta l’1 gennaio 2016. Com’è possibile che al Ministero dell’Economia si sia gridato all’allarme dopo un bel pezzo che i buoi fossero scappati dalla recinzione? Se è vero che era stato il suo predecessore Fabrizio Saccomanni ad avere recepito con entusiasmo la direttiva comunitaria Brrd, trasformata in legge nazionale dal Parlamento a vasta maggioranza e senza un minimo di riflessione critica, è altrettanto indubbio che il governo Renzi ebbe più di un anno e mezzo di tempo per apportare correttivi o almeno avviare una riflessione pubblica sul tema. Invece, niente.
3) Sempre a Padoan andrebbe chiesto conto delle modalità con cui avvenne il salvataggio pubblico delle quattro banche minori (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti) nel novembre 2015.
4) A Ghizzoni, che fino a un anno e mezzo fa è stato a capo di Unicredit, andrebbe chiesto come sia stato possibile stringere un accordo con la Popolare di Vicenza per garantirle l’aumento di capitale da attuarsi nella primavera 2016, quando già qualche mese dopo (siamo a inizio 2016) la banca si ritraeva dall’operazione, rendendo necessaria la nascita del Fondo Atlante, alimentato con i denari di tutto il sistema bancario privato e orchestrato da Padoan. In sostanza, un errore di valutazione del manager è ricaduto su tutti gli istituti italiani, costando loro quasi 5 miliardi di euro, finalizzati a sostenere sia le ricapitalizzazioni della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca (tentativi miseramente falliti), sia gli Npl ceduti sul mercato. Se è vero che per tale disastro ci ha rimesso il posto, resta il fatto che Atlante sia sorto a questo punto non tanto per salvare le due banche venete, quanto per mettere in sicurezza proprio Unicredit, unico istituto sistemico italiano secondo la lista Sifi. (Leggi anche: Atlante scarica sugli italiani i pasticci del governo Renzi sulle banche)