Le banche americane tornano a far tremare i mercati finanziari. Ieri, un report sul primo trimestre di First Republic Bank ha riacceso i fari sulla condizione difficile attraversata in questa fase dal mercato del credito. Nei primi tre mesi dell’anno, l’istituto ha perso 102 dei 176 miliardi di dollari di depositi a fine 2022. La fuga dei clienti è proseguita malgrado il salvataggio che si pensava fosse definitivo con i 30 miliardi di liquidità iniettati da un consorzio bancario. Il titolo in borsa ha perso ieri quasi il 50%, portando le perdite da inizio anno sopra il 93%.
Stretta monetaria dopo anni di tassi a zero
Questa rischia di essere la terza banca a saltare in aria dopo Silicon Valley Bank e Signature Bank un mese e mezzo fa. Tutto nacque con le perdite riportate dalla prima in relazione alla vendita di un portafoglio obbligazionario. I prezzi di mercato dei bond risultarono nettamente inferiori a quelli di carico. Una condizione comune a banche, assicurazioni e fondi d’investimento. Finché gli asset non sono rivenduti, tali perdite rimangono virtuali. La situazione si fa seria, invece, se per un qualche motivo il possessore decide di liquidare tali asset.
A scatenare la crisi delle banche di queste settimane è stata la stretta monetaria globale. Per molti anni le banche centrali hanno tenuto i tassi d’interesse azzerati e acquistato bond per iniettare liquidità sui mercati. Tutto ciò ha “gonfiato” i prezzi degli asset finanziari all’inverosimile. Con il rialzo dei tassi, il crollo. Il fatto è che adesso molte istituzioni finanziarie hanno all’attivo titoli che rendono poco e dall’altra parte clienti che cercano di sfruttare il nuovo corso sui mercati, pretendendo rendimenti più alti sui loro investimenti obbligazionari.
Sarà un caso, ma questa crisi delle banche sta tornando in auge alla vigilia di un nuovo round di riunioni dei principali istituti centrali. A inizio maggio, Federal Reserve e Banca Centrale Europea (BCE) aumenteranno ancora una volta i tassi d’interesse. Misura necessaria per contenere l’inflazione ancora alta sia negli Stati Uniti che nell’Area Euro. Tuttavia, la finanza invia segnali espliciti di stress. Oltre ai crolli azionari nel comparto bancario, la minaccia di Moody’s di declassare il debito pubblico italiano a “spazzatura”.
Crisi banche e debiti sovrani
I governatori centrali sono avvisati: “se pensate di inasprire eccessivamente le condizioni monetarie, vi ritroverete con un disastro ben più gigantesco di quello verificatosi nel 2008 con il crac di Lehman Brothers”. Anche perché i corsi azionari ormai sembrano correlati strettamente ai bilanci delle banche centrali. È bastato un ritorno agli acquisti della FED a marzo per far ripartire Wall Street. Solo che, dati alla mano, la FED è tornata a ridurre il suo bilancio e la borsa americana non la sta prendendo bene. Né possiamo biasimare più di tanto coloro che nei quindici anni passati sono andati avanti a tassi a zero o negativi e “quantitative easing”.
La BCE è passata in un niente dai tassi sui depositi al -0,50% al 3%. E, verosimilmente, di questo passo li porterà almeno fino al 3,50-3,75%. Sta cercando di normalizzare i mercati, dunque, prendendo al balzo la palla passatale dall’alta inflazione di questa fase. Solo che i mercati sono stati “drogati” per un periodo di tempo enorme e con dosi elevatissime di stupefacenti finanziari.
Sarà un caso, ma l’agenzia in mano al capitalista americano per eccellenza, Warren Buffett, e la banca d’affari che più riflette i desiderata della finanza a stelle e strisce (Goldman Sachs) abbiano deciso negli ultimi giorni di scendere in campo per mandare un segnale alla BCE sull’Italia. Tutto si tiene in piedi con uno sputo. Se la FED smette di alzare i tassi e la BCE prosegue la stretta, gli Stati Uniti rischiano un deflusso dei capitali destabilizzante. E questo non può piacere a Wall Street. Ed ecco che puntualmente torna lo spettro della crisi delle banche, alias dei debiti sovrani in Europa.