In conferenza stampa, il governatore della BCE, Mario Draghi, ha risposto a una domanda sulla richiesta del governo italiano di prorogare il “quantitative easing” a sostegno dei BTp, chiarendo come gli stimoli monetari non siano stati varati e attuati per finanziare i debiti sovrani degli stati dell’Eurozona, quanto con il solo obiettivo di perseguire la stabilità dei prezzi nell’area. Si è trattato, come abbiamo già scritto in questi giorni, di una risposta ovvia, scontata, non avrebbe potuto esprimersi diversamente.
Perché se l’America di Trump entrasse in crisi a saltare sarebbe la BCE di Draghi
Nel dire l’ovvio, Draghi ha omesso che fosse altrettanto scontata la reazione di assuefazione dei governi agli stimoli monetari. Vi ricordate il dibattito lacerante a Francoforte sull’opportunità o meno che la BCE si mettesse a comprare titoli del debito pubblico e altri assets privati? La Germania fu un prima linea con la Bundesbank di Jens Weidmann per opporre una fiera critica al piano, sostenendo che esso avrebbe alimentato un “azzardo morale” tra i governi, inducendoli a dipendere dai bassi rendimenti e a procrastinare, se non a eliminare del tutto dalle rispettive agende, l’attuazione delle riforme (impopolari, nel breve) richieste per potenziare da un lato la crescita di medio-lungo termine e dall’altro per risanare i conti pubblici.
E la Bundesbank ci azzeccò
L’Italia ha esaudito la profezia tedesca. Prima del QE, il nostro deficit si attestava al 3% del pil, mentre chiudeva il 2017 con un disavanzo fiscale al 2,3%.
Nessuno in Italia lo ammetterà mai, ma la Bundesbank aveva ragione: il QE è stato cibo per quello che le istituzioni comunitarie definiscono “populismo”. Esso ha represso i rendimenti e ha generato l’errata convinzione tra politici e attori economici che la crisi del debito fosse alle spalle, che i pochi mesi del governo Monti fossero stati capaci di “salvare” la nostra economia. E il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia. Francia, Spagna e Portogallo, ad esempio, hanno tutti rinviato di anno in anno i target fiscali, con Parigi ad essere scesa sotto il 3% di deficit, il massimo consentito dal Patto di stabilità, solo nel 2017. La Spagna non è stata in grado di approfittare nemmeno di una crescita media del pil al 3% all’anno per abbattere il deficit sotto tale soglia e ancora Bruxelles resta in attesa che lo faccia.
La crisi del debito italiano travolgerà l’euro, Draghi dovrà intervenire in autunno
Del resto, lo spread non è “un imbroglio”, per dirla alla Berlusconi, bensì il termometro della temperatura sui mercati finanziari. E cosa succede se a un paziente gli falsi il termometro, mettendoglielo in frigo? Si convince di non avere la febbre a 38 o a 40, ma a 36. Non prende le medicine e magari si becca un nuovo malanno, uscendo di casa anche con il freddo. Guarirà? No, si ammalerà persino di più. E’ accaduto ai governi dell’area, che sono passati dall’allarme alla quiete, pur avendo compiuto pochi o nulli passi in avanti nella direzione giusta. L’Italia continua a non crescere, ovvero a crescere tra le meno di tutto l’Occidente, a vedere nel debito la panacea dei propri mali e non la fonte dei suoi guai e la politica a mostrarsi irresponsabile. Tutta colpa di Draghi? Non di certo. Senza il suo QE, non sarebbe forse cambiato granché a Roma, se non la percezione reale del disastro economico-finanziario in cui siamo andati a sbattere per decenni di lassismo fiscale e di corporativismi esasperati.