Crisi del debito, Draghi scopre che la Germania aveva ragione su QE e ‘azzardo morale’

La BCE di Draghi ha sottovalutato le critiche tedesche ai suoi stimoli monetari, relegandole a discussioni ideologiche. Eppure, alla fine la Bundesbank ha avuto ragione almeno su un punto.
6 anni fa
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In conferenza stampa, il governatore della BCE, Mario Draghi, ha risposto a una domanda sulla richiesta del governo italiano di prorogare il “quantitative easing” a sostegno dei BTp, chiarendo come gli stimoli monetari non siano stati varati e attuati per finanziare i debiti sovrani degli stati dell’Eurozona, quanto con il solo obiettivo di perseguire la stabilità dei prezzi nell’area. Si è trattato, come abbiamo già scritto in questi giorni, di una risposta ovvia, scontata, non avrebbe potuto esprimersi diversamente.

Il QE si è tradotto in un azzeramento dei rendimenti dei titoli di stato nell’area, in conseguenza degli acquisti realizzati dalla BCE sin dal marzo del 2015. Tuttavia, lo scopo dell’istituto era e resta quello di incrementare la liquidità sui mercati e di stimolare così i prezzi, che prima del QE viaggiavano ormai su valori tendenziali negativi, segnalando una pericolosa deflazione strisciante.

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Nel dire l’ovvio, Draghi ha omesso che fosse altrettanto scontata la reazione di assuefazione dei governi agli stimoli monetari. Vi ricordate il dibattito lacerante a Francoforte sull’opportunità o meno che la BCE si mettesse a comprare titoli del debito pubblico e altri assets privati? La Germania fu un prima linea con la Bundesbank di Jens Weidmann per opporre una fiera critica al piano, sostenendo che esso avrebbe alimentato un “azzardo morale” tra i governi, inducendoli a dipendere dai bassi rendimenti e a procrastinare, se non a eliminare del tutto dalle rispettive agende, l’attuazione delle riforme (impopolari, nel breve) richieste per potenziare da un lato la crescita di medio-lungo termine e dall’altro per risanare i conti pubblici.

E la Bundesbank ci azzeccò

L’Italia ha esaudito la profezia tedesca. Prima del QE, il nostro deficit si attestava al 3% del pil, mentre chiudeva il 2017 con un disavanzo fiscale al 2,3%.

In 3 anni, il miglioramento nominale è stato di appena lo 0,7% del pil, quando il costo pagato ogni anno per onorare il debito pubblico risulta nel frattempo essere diminuito nell’ordine di almeno un punto di pil (nel 2012 abbiamo pagato sopra gli 80 miliardi, nel 2017 sui 65, passando dal 5% al 3,8% del pil). In altre parole, Draghi ha migliorato i conti pubblici italiani, così come quelli degli altri stati dell’Eurozona, ma il suo è stato l’unico contributo positivo per il risanamento fiscale, intaccato dalle frequenti richieste di Roma di maggiore flessibilità, concessa dalla Commissione europea quasi senza indugi fino ad oggi. E’ vero che un occhio i commissari lo hanno chiuso dietro l’approvazione di alcune riforme sino ad allora molto caldeggiate, tra cui del mercato del lavoro (Jobs Act) e del sistema bancario. Tuttavia, non si può certo smentire che il QE abbia rallentato riforme da un lato e riduzione del deficit dall’altro. I numeri per l’Italia parlano chiaro: il rapporto tra debito e pil è salito fino all’apice del 132% nel 2016, scendendo di un paio di decimali lo scorso anno.

Nessuno in Italia lo ammetterà mai, ma la Bundesbank aveva ragione: il QE è stato cibo per quello che le istituzioni comunitarie definiscono “populismo”. Esso ha represso i rendimenti e ha generato l’errata convinzione tra politici e attori economici che la crisi del debito fosse alle spalle, che i pochi mesi del governo Monti fossero stati capaci di “salvare” la nostra economia. E il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia. Francia, Spagna e Portogallo, ad esempio, hanno tutti rinviato di anno in anno i target fiscali, con Parigi ad essere scesa sotto il 3% di deficit, il massimo consentito dal Patto di stabilità, solo nel 2017. La Spagna non è stata in grado di approfittare nemmeno di una crescita media del pil al 3% all’anno per abbattere il deficit sotto tale soglia e ancora Bruxelles resta in attesa che lo faccia.

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Del resto, lo spread non è “un imbroglio”, per dirla alla Berlusconi, bensì il termometro della temperatura sui mercati finanziari. E cosa succede se a un paziente gli falsi il termometro, mettendoglielo in frigo? Si convince di non avere la febbre a 38 o a 40, ma a 36. Non prende le medicine e magari si becca un nuovo malanno, uscendo di casa anche con il freddo. Guarirà? No, si ammalerà persino di più. E’ accaduto ai governi dell’area, che sono passati dall’allarme alla quiete, pur avendo compiuto pochi o nulli passi in avanti nella direzione giusta. L’Italia continua a non crescere, ovvero a crescere tra le meno di tutto l’Occidente, a vedere nel debito la panacea dei propri mali e non la fonte dei suoi guai e la politica a mostrarsi irresponsabile. Tutta colpa di Draghi? Non di certo. Senza il suo QE, non sarebbe forse cambiato granché a Roma, se non la percezione reale del disastro economico-finanziario in cui siamo andati a sbattere per decenni di lassismo fiscale e di corporativismi esasperati.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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