Entro la fine dell’anno, il Tesoro dovrà rimettere Banca MPS sul mercato e quando mancano 5 mesi alla scadenza pattuita con la Commissione europea, non c’è nessun cavaliere bianco disposto a prendersela. Di più. Con l’addio alle scene di Jean-Pierre Mustier a capo di Unicredit e l’arrivo al suo posto di Andrea Orcel, i piani sembravano fatti. Peraltro, l’ex ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è presidente di Piazza Gae Aulenti. Gestì il dossier sulla nazionalizzazione di MPS nel 2017 e adesso sarebbe un insider su cui puntare per ri-privatizzarla.
Ma il punto è che la banca toscana, la più antica al mondo ancora in attività, è andata peggiorando proprio sotto la gestione dello stato. I numeri hanno la testa dura e ci dicono che nel 2016, ultimo anno di gestione privata, l’istituto chiuse con ricavi per 3,8 miliardi. Nell’intero 2020, invece, era scesa a 2,5 miliardi. Ha perso per strada, dunque, 1,3 miliardi, più di un terzo del fatturato. Infatti, il margine d’interesse è passato da 1,78 a 1,05 miliardi, mentre le commissioni nette da 1,8 a 1,35 miliardi. Già queste due voci ci spiegano che MPS oggi sia di gran lunga meno capace di ottenere risultati attraverso l’attività bancaria tipica, che consiste nel prestare denaro e nell’offrire altri servizi alla clientela.
Il salasso MPS per i contribuenti
Certo, siamo nell’era dei tassi a zero e ciò sta pesando sui bilanci di tutte le banche europee. Ma qui siamo dinnanzi a cifre catastrofiche. La stessa massa attiva (prestiti) è scesa da 144 a 134 miliardi, mentre la raccolta diretta è diminuita da 92 a 89 miliardi. Insomma, minori impieghi e minori depositi dei risparmiatori. Evidentemente, questi ultimi non si sono sentiti rassicurati dal controllo dello stato. In cambio, i crediti deteriorati netti sono stati smaltiti in misura notevole: erano al 18,2% del totale nel 2016, ma solo al 2,6% a fine 2020. Qui, hanno avuto effetto le maxi-cessioni ad Amco, un’altra controllata dal Tesoro.
In borsa, non poteva andare peggio: azioni MPS a -90% e capitalizzazione di appena 1,15 miliardi, neppure un quarto del valore del patrimonio netto, fermo a 4,7 miliardi. E adesso? Resta solo l’ipotesi credibile dello “spezzatino”. Unicredit si prenderà le attività “in bonis” e beneficiando dei crediti fiscali assegnati dallo stato per neutralizzare l’operazione ai fini patrimoniali. I costi legati alle cause pendenti e future contro MPS valgono fino a un massimo di 10 miliardi e non c’è bisogno che vi chiariamo che se li accollerà lo stato, in un modo o nell’altro.
Tenendo conto di tale spada di Damocle che pende sull’istituto, MPS rischia di costare ai contribuenti più 16 miliardi, nel caso in cui le sentenze fossero tutte sfavorevoli alla banca e lo stato se ne accollasse per intero il conto. Un solo dato: la nazionalizzazione costò 6,9 miliardi tra aumento di capitale e rimborso delle obbligazioni subordinate. Oggi, il 64% in mano al Tesoro vale solamente 750 milioni. E poiché appare impossibile che le azioni MPS esplodano in borsa entro pochi mesi, tale da accrescere il prezzo di vendita, la perdita per i contribuenti sarebbe ad oggi di oltre 6 miliardi, oltre lo 0,3% del PIL. Un affarone.