La scorsa settimana, il Tesoro americano ha emesso titoli di stato per 112 miliardi di dollari, di cui 26 per la scadenza a 30 anni, 38 per quella a 10 anni e 48 per il triennale. Il trentennale ha esitato un rendimento dell’1,406%, 3 punti base superiori a quanto rendesse sul mercato secondario prima dell’asta di giovedì 13. E la domanda è stata solo di 2,14 volte l’offerta, la più debole da 13 mesi. Al contrario, decennali e triennali sono andati a ruba, segno che il mercato non accetterebbe rendimenti troppo bassi sul tratto a lungo della curva americana.
In effetti, questo mese il Treasury a 30 anni è salito dall’1,23% all’1,42% e quello a 5 anni dallo 0,22% allo 0,28%, per cui lo spread tra le due scadenze, considerato un indicatore dello stato di salute dell’obbligazionario e della ripidità della curva, si è allargato da 101 a 114 punti base. In altre parole, la curva americana si è fatta più ripida.
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Sarebbero tante le cause di questa tendenza. Anzitutto, Washington sta immettendo sul mercato quantità senza precedenti di debito pubblico in breve tempo, puntando proprio sulle scadenze più lunghe per approfittare dei bassi tassi di questa fase. Secondariamente, le aspettative d’inflazione negli USA si stanno “surriscaldando”, attestandosi attualmente all’1,53%, in rialzo di 7 bp questo mese. Dunque, gli investitori si aspettano una perdita media del potere di acquisto per i prossimi anni superiore al rendimento nominale trentennale, che diverrebbe così negativo.
Tassi negativi, non per tutti
Il fenomeno non sarebbe affatto un inedito, se si pensa che il Bund a 30 anni della Germania offra ancora rendimenti negativi, infliggendo perdite certe a chi lo detiene. Ma c’è una differenza tra USA ed Eurozona: i primi hanno una bilancia dei pagamenti negativa, cioè complessivamente esportano meno merci, servizi e capitali di quanto ne importino. Questo espone il debito sovrano americano agli umori degli investitori esteri, i quali difficilmente accetteranno di finanziare Zio Sam a rendimenti penalizzanti.
I tassi negativi provocano tipicamente la fuga dei capitali e l’indebolimento del cambio. Un’economia con saldi correnti in surplus può permetterseli, confidando nell’abbondanza dei capitali attratti per finanziare il suo debito, almeno fino a quando gli investitori non segnalino di averne abbastanza e il cambio non inizi a indebolirsi troppo. Chi, come gli USA, parte già da un saldo negativo non dispone di margini, rischiando di perdere il controllo sulle aspettative d’inflazione, cioè anche della curva dei rendimenti. Per questo, la Fed difficilmente fisserà i tassi sottozero, un fatto che di per sé il mercato sconta e che offre sostegno al dollaro. Poiché l’allentamento monetario a stelle e strisce appare limitato, mentre quello dell’Eurozona non ancora, l’atteso indebolimento del dollaro contro l’euro troverebbe una sorta di “floor”. E questo aiuta lo stesso Tesoro americano, in questa fase, ad emettere debito e piazzarlo tra gli investitori stranieri, i quali possono contenere i timori sull’effetto cambio sfavorevole nel medio e lungo periodo.
Perché i rendimenti americani e il cambio euro-dollaro sono legati