Ieri, in Giappone è accaduto qualcosa di allarmante, seppur con implicazioni d’impatto positive per il mercato obbligazionario d’Europa e USA. L’asta dei bond a 10 anni di Tokyo ha registrato il minore rapporto di copertura da 3 anni a questa parte, con ordini pari a 3,42 volte l’offerta, mentre il prezzo di assegnazione si è attestato a 102,33, meno dei 102,64 ipotizzati dal mercato. La reazione sul secondario è stata immediata: +6 punti base per i rendimenti decennali, saliti fino al -0,16% e futures giù da 155,02 a 154,05, tanto da fare scattare la richiesta di “margin call” per gli investitori, il margine di garanzia da versare alla stanza di compensazione.
Nuovi investimenti dal Giappone sull’obbligazionario europeo?
Il “sell off” è stato dovuto alla volontà espressa della Banca del Giappone di non consentire un eccessivo appiattimento della curva delle scadenze, specie con il lancio di eventuali nuovi stimoli monetari. Il mercato ha inteso queste dichiarazioni del governatore Haruhiko Kuroda come il segnale che l’istituto frenerà gli acquisti sul tratto lungo della curva, concentrandosi solo su quello medio-breve, così da ottenere una curva minimamente ripida. Anzi, per le scadenze superiori ai 25 anni ci si aspetta una cessazione degli acquisti già da questo mese.
Al contempo, il fondo pensionistico sovrano ha annunciato di avere modificato lo statuto, così da poter investire maggiormente sui bond all’estero. Come? Equiparando questi ultimi a quelli domestici nel caso di copertura del rischio di cambio e segnalando la volontà di innalzare dall’attuale 19% al 30% il limite massimo di obbligazioni straniere da detenere rispetto agli assets in portafoglio. In altre parole, uno dei principali investitori istituzionali del Giappone fugge all’estero per scampare ai rendimenti negativi sulle brevi scadenze e ai cali attesi per i prezzi dei bond più longevi con il cambio di policy alla banca centrale.
Il QE sarà per sempre?
Se tutto questo, come vi abbiamo spiegato ieri, suggerirebbe che verso Europa e USA starebbero per riversarsi nuovi flussi di capitali a favore dei rispettivi comparti obbligazionari, dall’altro lato il segnale appare scoraggiante: senza il pieno sostegno delle banche centrali, gli investitori non comprano.
Se tutto questo è vero, significa che abbandonare il “quantitative easing” sarà molto più difficile di quanto si creda anche in Europa e gli stessi USA. La Federal Reserve aveva iniziato persino a ridurre il suo bilancio, vendendo assets fino a un ritmo mensile di 50 miliardi di dollari, ma dovendo fare immediatamente marcia indietro non solo sulle proteste della Casa Bianca, ma anche sulla reazione dei mercati, che avevano fatto impennare i rendimenti dei Treasuries. La Fed si tiene adesso pronta per un quarto round di QE, mentre la BCE ne avvierà la riattivazione dal prossimo mese e per 20 miliardi di euro al mese. In tanti nello stesso board di Francoforte hanno dissentito con la scelta del governatore uscente Mario Draghi, il quale sembra più preoccupato di perpetuare le condizioni estremamente favorevoli di questi anni sui mercati finanziari, anziché realmente a centrare il target d’inflazione.
Le banche centrali dovranno rivedere i target d’inflazione o perderanno credibilità
Del resto, i primi acquisti di assets da parte di una banca centrale risalgono all’inizio del millennio e riguardano proprio Tokyo. Da allora, sono passati quasi due decenni e non solo l’obiettivo della stabilità dei prezzi è stato raggiunto in Giappone, ma la dipendenza del mercato dall’istituto è diventata cronica e totale.