Donald Trump ha fatto una parziale marcia indietro sui dazi, sospesi per 90 giorni per quegli stati che non avevano reagito con tariffe ritorsive. Al contempo, li ha aumentati al 125% sulle merci cinesi, poiché Pechino aveva a sua volta replicato con un dazio all’84% sulle importazioni dagli USA. Il presidente americano è dovuto scendere a più miti consigli con alcuni dei suoi collaboratori, tra cui il segretario al Tesoro, Scott Bessent, e il capo del DOGE, Elon Musk. Entrambi hanno premuto per evitare una guerra commerciale con il resto del mondo.
Dazi di Trump rimescolano schieramenti politici
In queste settimane abbiamo assistito a un capovolgimento rocambolesco delle posizioni politiche.
La sinistra mondiale, che a parole aveva contrastato la globalizzazione nei decenni passati, ha inveito duramente contro i dazi di Trump, ergendosi a difensore del libero commercio. La destra americana, pur in evidente imbarazzo e divisa al suo interno, ha cercato di spiegare la bontà del piano. Una cosa va detta senza fraintendimenti: i dazi sono la risposta sbagliata a un problema reale. Si deve fare di tutto per evitare i primi, ma senza cadere nel tranello di chi ha interesse a negare che esista il secondo.
Globalizzazione opportunità mal gestita
La globalizzazione è stata una grande occasione storica per fare uscire dalla povertà centinaia di milioni e finanche miliardi di abitanti sulla Terra. Il libero commercio è la condizione naturale dell’uomo sin dalla notte dei tempi. Furono gli stati a restringerlo per ragioni economiche (difesa delle produzioni locali) o anche solo per fare cassa attraverso i pagamenti alla dogana. La teoria del vantaggio comparato di David Ricardo illumina sui benefici reciproci dell’interscambio commerciale: ogni economia si specializza nel produrre ciò in cui riesce a costi inferiori.
Alla fine, tutti riescono a comprare ai minimi prezzi e ciò accresce la ricchezza.
Qualcosa in questa globalizzazione è andato storto, però. I dazi di Trump sono la risposta arrivata dalle elezioni americane del novembre scorso, anche se già si era intravista nel 2016 con la sua prima vittoria. Main Street, cioè la gente comune, di tutta questa ricchezza prodottasi in questi decenni non sembra vederne granché. Le borse salgono e battono sempre nuovi record. La lista dei miliardari vede l’ingresso persino di giovanissimi, che accumulano ricchezze immense in così breve tempo da far apparire Warren Buffett un fallito. Tutti parlano di opportunità, ma alla fine il lavoro in Occidente a stento tiene testa al costo della vita e neanche la laurea serve più per guadagnare meglio.
Borse mondiali giù, ma distribuzione asset azionari iniqua
Che a sinistra si straccino le vesti per il crollo della borsa è emblematico dei tempi che viviamo. E’ vero che il mercato azionario non sia scollegato dalla vita reale e che esso sostiene, ad esempio, i fondi pensione degli americani. Tuttavia, la distribuzione è molto iniqua. Lo 0,1% delle famiglie possiede azioni per 11.000 miliardi di dollari, mentre il 50% detiene meno di 500 miliardi in investimenti azionari. Capite benissimo che a piangere nei giorni scorsi per il crollo di Wall Street non sia stato l’operaio alla Ford di Detroit.
Trump ha vinto con il voto di questi e non con i colletti bianchi di New York, che non a caso ora hanno scarsa presa sulla Casa Bianca.
Cosa non ha funzionato? La globalizzazione, dicevamo, è stata una grande occasione sfruttata male. L’ottimismo per i suoi benefici e la compiacenza verso le multinazionali hanno permesso alla Cina di entrare sul mercato globale praticando politiche di dumping. Abbiamo finto di non capire che a Pechino non esista il libero mercato, bensì il comunismo adattato al capitalismo. Lo stato gestisce direttamente o indirettamente le grandi industrie, scaricandone gli eccessi produttivi sulle esportazioni e sostenendole a colpi di sussidi. Se n’era accorto già Barack Obama a fine mandato, quando impose dazi altissimi sull’acciaio. Era la fine del 2015.
Desertificazione industriale in Occidente
Se già era impossibile competere con i bassissimi salari cinesi di inizio millennio, ancora meno lo è stato in seguito a causa di questa disparità di regole. Noi abbiamo giocato con un avversario che ha barato tutto il tempo. Questo si è tradotto nella desertificazione industriale dell’Occidente. Ci eravamo convinti che saremmo andati avanti senza manifattura e con i soli servizi. Abbiamo educato le nuove generazioni all’idea che gli altri avrebbero fatto i lavori che non vogliamo svolgere, cioè quelli sporchi e faticosi, mentre noi avremmo tutti lavorato in giacca e cravatta o in tailleur e in un ufficio con aria condizionata. La realtà si è incaricata di smentire questo assunto e la delusione è montata.
I dazi di Trump non risolvono il problema, perché rischiano di portarci ad una condizione nella quale parte della ricchezza verrebbe distrutta a discapito di tutti. Ci sarebbero minori posti di lavoro e prezzi più alti per comprare merci e servizi. Ma la risposta non può essere la difesa dello status quo. La globalizzazione può ancora essere preservata imponendo a tutti le stesse regole. Se l’Occidente persegue la transizione energetica e ogni giorno s’inventa un nuovo diritto in favore di lavoratori e consumatori, non può pensare di competere alla pari con chi fa carne di porco dei diritti sindacali, se ne infischia dell’ambiente e neanche considera la sicurezza dei consumatori.
E per giunta gode di aiuti statali per alterare la concorrenza sui mercati internazionali.
Dazi di Trump contro Cina soluzione possibile
La soluzione di Trump sarebbe di imporre i dazi alla Cina per farle pagare questa alterazione delle regole a proprio favore. Può risultare efficace, a patto che la seguano anche i partner. Il problema sarà convincere l’Europa, che verso la Cina ha un deficit commerciale persino superiore a quello americano, ma la cui classe dirigente è molto benevola con Pechino. Se il tycoon è quotidianamente vilipeso da stampa, industriali e politici del Vecchio Continente, di Xi Jinping se ne parla con toni quasi di ammirazione. Siamo vittime della sindrome di Stoccolma e andiamo di matto contro chi ce lo fa notare.
giuseppe.timpone@investireoggi.it