Contrordine, compagni. Adesso, il debito pubblico è “buono”. Parola niente di meno che del premier Mario Draghi. Lo scorso anno, quando ancora non ci s’immaginava che sarebbe entrato a Palazzo Chigi, l’allora ex governatore BCE tuonò dal palco del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini contro il debito pubblico “cattivo”, ma contrapponendogli quello buono. Potendo riassumere in estrema sintesi il Draghi-pensiero, le cose starebbero così: il debito buono si ha quando viene investito guardando al futuro, per creare nuove occasioni di crescita.
Da un punto di vista keynesiano, queste affermazioni sarebbero una mezza bestemmia. L’economista del Novecento John Maynard Keynes teorizzò nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” la leva fiscale per sostenere la domanda aggregata interna e, quindi, perseguire la piena occupazione. La qualità della spesa non fu al centro delle sue riflessioni. Al limite, scrisse, si possono impiegare le persone per scavare buche per poi riempirle. L’importante è che si spenda. Ma dato che lo stato spende, sarebbe certamente meglio che lo facesse bene.
Insomma, per Keynes la qualità della spesa rilevava al massimo sul piano morale, non della sua utilità. Dopo quasi un secolo, possiamo affermare che l’esperienza ci dimostra come la qualità, oltre alla quantità, sia importante per giungere all’obiettivo. Il debito buono di cui parla Draghi consiste essenzialmente nella spesa per investimenti. In cosa? Infrastrutture fisiche, digitali, istruzioni, ricerca e sviluppo, insomma tutte quelle voci che nel medio-lungo termine riuscirebbero a potenziare il tasso di crescita di un’economia.
I rischi del debito buono
Da Rimini, Draghi aveva criticato velatamente la politica dei bonus del governo Conte, vedendo in essa una semplice manovra assistenziale senza visione del futuro e senza alcun impatto durevole sull’economia italiana.
C’è, però, un rischio insito più che nel Draghi-pensiero, nei suoi numerosissimi sostenitori: che ci si faccia prendere la mano. Il debito buono è anche un debito breve. Se l’Italia si mettesse in testa che potrebbe sovra-spendere strutturalmente per accrescere la spesa per investimenti, sbaglierebbe. Per diverse ragioni. La prima è che una manovra fiscale espansiva di lunga durata finirebbe per intimorire i mercati finanziari. A maggior ragione che parliamo di un Paese con un rapporto debito/PIL già al 160%. Va bene spendere in deficit quando ne hai bisogno, ma non può diventare un modus vivendi. Lo stesso Keynes teorizzava surplus di bilancio negli anni buoni, con i quali ripagare i deficit accumulati negli anni avversi.
Se nel nome del debito buono iniziassimo a spendere troppo e/o per troppo tempo, rischieremmo di aumentarne il costo reale di emissione. Servirebbero risorse crescenti per ripagarlo e ne scaturirebbe un debito cattivo. Secondariamente, Cina e Giappone sono esempi piuttosto lampanti di come anche il debito buono abbia forti limiti. Pechino destina tra il 40-45% del PIL all’anno in investimenti, Tokyo ha portato il suo rapporto debito/PIL pre-Covid al 240%. Eppure, la crescita rallenta nella prima ed è ferma da decenni nella seconda. E questo per la semplice ragione che anche la spesa buona esita rendimenti decrescenti.
Limiti anche della spesa buona
Se al Sud Italia portassimo l’Alta Velocità, quella spesa inizialmente avrebbe effetti di forte stimolo delle economie locali. Le merci e le persone si sposterebbero più velocemente e i costi e tempi di trasporto ne risulterebbero abbattuti.
Per concludere, Draghi ha detto l’ovvio. Non pensate che prima di lui non ci fossero arrivate migliaia, se non milioni e milioni di persone, anche comuni. Il fatto è che l’ex governatore BCE possedeva e possiede l’autorevolezza necessaria con cui scuotere le istituzioni nazionali ed europee per aprire una riflessione sulla qualità, oltre che sulla quantità della spesa e del debito pubblico. Peraltro, gli investimenti hanno di positivo anche un altro aspetto: essendo spesa non strutturale, nel caso in cui i governi necessitassero di un rientro dai disavanzi pubblici, potrebbero ridurli semplicemente smettendo di rifinanziarli. Detto questo, la spesa pubblica si finanzia tendenzialmente e per intero tramite le entrate, cioè le tasse. Sfuggire da questo assioma significa girare le spalle alla realtà.