Il Belize è di fatto in default per la seconda volta in tre mesi, non avendo pagato la cedola su un debito in scadenza il 20 maggio. Il governo ha assegnato ai creditori tempo fino all’1 giugno per accettare l’estensione del periodo di grazia di 30 giorni al 19 settembre. Che gli obbligazionisti accettino o meno, poco importa. Dopo S&P (“Selective Default”), anche l’agenzia di rating Moody’s dovrebbe tagliare il suo giudizio sovrano dall’attuale Caa3 a Ca o C.
E pensare che solamente nel febbraio scorso il Belize avesse mandato il debito in default, chiedendo ai creditori di accettare un taglio (“haircut”) del 30% e un allungamento delle scadenze (“roll-over”). La cedola saltata nei giorni scorsi ammonta a 6,5 milioni su un bond da 526,5 milioni in scadenza nel 2034, tasso annuo del 4,938% (ISIN: USP16394AG62). Si trattava di un pagamento trimestrale sul
Le cifre possono apparire risibili, ma pensate solamente che il suddetto bond incide per quasi un terzo del PIL del paese. E mancano le risorse per pagare. La pandemia ha fatto esplodere il debito pubblico al 135%. Le riserve valutarie languono e, pertanto, c’è scarsissima liquidità in cassa per provvedere ai pagamenti. Nel frattempo, il debito in default di cui sopra è imploso sul mercato a una quotazione inferiore a 32 centesimi. In termini di rendimento, parliamo di oltre il 30% all’anno.
Siamo alla quinta ristrutturazione del debito in 14 anni. Segno che il Belize non riesca a ottemperare alle sue obbligazioni. I creditori potranno pure affannarsi a resistere all’ennesima scure in breve tempo, ma difficilmente caveranno un ragno dal buco. Peraltro, lo stato centroamericano non è l’unico a versare in condizioni critiche in così pochi anni. Tralasciando il caso macroscopico e patologico dell’Argentina, come non ricordare il debito in default per la terza volta in un anno nel Suriname?
Dall’America Latina all’Africa e con qualche caso anche in Asia (vedi Libano), le richieste di ristrutturazione si moltiplicano, così come quelle di aiuto lanciate al G-20.