Il tema con la pandemia prima e la guerra dopo sembra essere diventato secondario nel dibattito pubblico nazionale. La sospensione del Patto di stabilità ha acquietato temporaneamente gli animi, ma il problema del debito pubblico italiano tornerà a porsi già dal prossimo anno con insistenza, cioè quando verranno ripristinate le regole di bilancio dell’Unione Europea. In realtà, le preoccupazioni fiscali non sono mai svanite. Anzi, abbiamo rischiato grosso proprio all’inizio della pandemia, quando i mercati finanziari temettero che il collasso del PIL avrebbe reso non più sostenibili gli squilibri dei nostri conti pubblici.
Il Documento di economia e finanze (DEF) presentato nei giorni scorsi dal governo Meloni ci aiuta a capire meglio la dinamica del debito pubblico per il triennio in corso. Partiamo da un dato. Il rapporto con il PIL è sceso di quasi sei punti percentuali l’anno scorso al 144,4%. Ed è destinato a scendere anche nei prossimi anni fino al 140,4% atteso per il 2026, ultimo anno per cui siano state effettuate previsioni ufficiali. Sembra, quindi, che la direzione sia quella giusta. E lo è, in effetti. Il fatto è che la corsa del debito pubblico resta veloce. A dimostrarlo è proprio il DEF.
Nel triennio 2023-2025, lo stock è atteso in crescita secondo il quadro programmatico di oltre 316 miliardi di euro. Una cifra enorme, che equivale all’11,5% dell’ammontare a fine 2022. E stando alle previsioni del governo Meloni, la montagna del debito pubblico sfonderà la soglia dei 3.000 miliardi di euro tra la seconda metà del prossimo anno e gli inizi del 2025. Infatti, a fine 2024 salirebbe a ridosso di tale soglia, mentre già a fine 2025 si porterebbe sopra 3.070 miliardi. Poiché verso la fine dell’esercizio il debito tende a diminuire per effetto delle minori emissioni, questo implica che tra poco più di un anno dovremmo assistere alla sua salita, pur temporanea, sopra 3.000 miliardi, per restarvi sopra definitivamente a partire dai primi mesi del 2025.
Debito pubblico corre più del PIL in valore assoluto
A fronte di tale boom, il PIL crescerebbe meno di 270 miliardi, spinto essenzialmente dall’alta inflazione. Dunque, serviranno 1,18 euro di debito pubblico per aumentare le dimensioni dell’economia italiana di 1 euro. Nel frattempo, pagheremo oltre 250 miliardi di interessi lordi. Il costo implicito del nostro debito, dunque, salirebbe fino al 3% dal 2,5% medio tendenziale negli anni passati. Al netto di tale spesa, quindi, il debito segnerebbe una crescita molto più contenuta di neppure 65 miliardi. Questo significa anche che non faremo nuovi debiti per investire o anche solo erogare maggiori servizi pubblici, ma semplicemente per mantenere i debiti già contratti nei decenni scorsi.
Di questo passo, nel triennio in corso la crescita del debito pubblico sarà di circa 288 milioni di euro al giorno. Ogni abitante residente in Italia sarà indebitato di 4,8 euro al giorno, ossia di 1.760 euro all’anno. Un buon stipendio mensile all’anno che se ne va. Numeri da capogiro, che ci fanno comprendere quanto il problema sia serio e non possa essere liquidato secondo diatribe ideologiche tra filo-austerity e filo-keynesiani. Il debito pubblico costa, cioè drena dalle tasche di tutti noi contribuenti preziose risorse che potrebbero essere destinate a potenziare la scuola, la sanità, l’assistenza sociale, le infrastrutture pubbliche o anche solo ad abbattere l’altissima tassazione a carico di lavoratori e imprese.
E il guaio di avere un alto debito pubblico è che per servirlo tenendo sotto controllo il suo rapporto con il PIL, occorre mantenere avanzi primari medio-alti. Entro il 2026, questi dovranno tendere al 2% del PIL. Sapete cosa significa? Le entrate dovranno risultare superiori alle spese, al netto degli interessi. In altre parole, dobbiamo più che in altri paesi tartassarci solo per impedire al debito di continuare a salire rispetto al PIL finendo col diventare insostenibile.