Decontribuzione sotto accusa: l’effetto boomerang sugli stipendi spiegati dalla Fornero

L’aumento della vita media e gli effetti imprevisti della decontribuzione accendono il dibattito su pensioni e salari.
4 giorni fa
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decontribuzione stipendio
Foto © Pixabay

Non sono solo i futuri pensionamenti a sollevare criticità nel dibattito pubblico e nelle analisi economiche. Un tema altrettanto rilevante è rappresentato dalla decontribuzione, misura pensata per stimolare il potere d’acquisto dei lavoratori attraverso una riduzione dei contributi previdenziali a carico dei dipendenti. In teoria, tale intervento avrebbe dovuto comportare un beneficio diretto in busta paga, garantendo un aumento degli stipendi netti. Tuttavia, la realtà si è rivelata ben più complessa.

Elsa Fornero, ex ministra del Lavoro e ideatrice della riforma pensione omonima, ha recentemente commentato la situazione durante un’intervista televisiva.

Nell’intervista anche la decontribuzione stipendi

L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha rilevato, nel 2024, un incremento di cinque mesi nell’aspettativa di vita media degli individui di 65 anni, rispetto ai dati registrati nel 2023.

Questo cambiamento demografico, apparentemente contenuto, ha però innescato conseguenze significative sul piano normativo e previdenziale. Infatti, il meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile, introdotto con la riforma Fornero, viene attivato proprio da variazioni di questo tipo nella speranza di mantenere la sostenibilità del sistema pensionistico italiano.

Sebbene la modifica non si applichi nell’immediato, a partire dal 2027 l’età per l’accesso alla pensione verrà aggiornata secondo i nuovi dati sulla longevità. Questo significa che il requisito anagrafico per lasciare il mondo del lavoro sarà destinato a salire, seguendo la tendenza dell’allungamento della vita media.

La Fornero ha commentato la misura nell’intervista televisiva alla trasmissione La7 Di Martedì, soffermandosi anche sugli effetti della decontribuzione sugli stipendi.

Cos’è la decontribuzione

Il principio alla base della decontribuzione è semplice: riducendo la quota contributiva versata dai lavoratori, si alleggerisce il carico sul loro stipendio lordo, facendo crescere l’importo netto percepito mensilmente.

Questa misura, adottata con l’obiettivo di sostenere i redditi, soprattutto in un periodo di inflazione crescente e difficoltà economiche, ha tuttavia generato un effetto secondario inatteso in alcuni casi.

L’aumento della retribuzione netta, infatti, ha comportato anche un incremento del reddito imponibile. In altre parole, il lavoratore, guadagnando di più grazie alla decontribuzione, è talvolta finito per rientrare in uno scaglione fiscale più elevato a causa delle nuove aliquote IRPEF introdotte recentemente. Questo ha determinato un paradosso: il vantaggio ottenuto tramite la riduzione contributiva è stato annullato – o addirittura superato – dal maggior prelievo fiscale.

Elsa Fornero ha illustrato il fenomeno in modo chiaro. L’incremento salariale derivante dalla decontribuzione, pur avendo effetti positivi nel breve termine, ha comportato in alcuni casi un salto di aliquota. Di conseguenza, il lavoratore si è ritrovato a pagare più tasse di quanto guadagnato in più. In altre parole, il beneficio fiscale iniziale si è trasformato in un aggravio fiscale.

Le categorie più penalizzate

Questo effetto distorsivo non si è manifestato in modo uniforme. Ci sono almeno tre fasce di lavoratori per cui le conseguenze sono state particolarmente evidenti.

In primo luogo, i dipendenti pubblici. Per questa categoria, l’interazione tra decontribuzione e riforma dell’IRPEF ha comportato, in alcuni casi, un taglio dello stipendio netto mensile, arrivando fino a 80 euro in meno rispetto a quanto percepito prima dell’entrata in vigore delle misure.

Una seconda fascia a rischio è costituita dai lavoratori con redditi compresi tra i 32.000 e i 40.000 euro annui. Per loro, l’effetto combinato delle nuove soglie fiscali e dell’aumento del reddito imponibile può portare a un’incidenza fiscale effettiva che raggiunge anche il 52%. In pratica, più della metà dell’incremento salariale viene assorbita dal fisco.

Infine, la situazione è particolarmente delicata per chi percepisce stipendi molto bassi, situati tra gli 8.500 e i 9.000 euro l’anno. In questo caso, il passaggio in una fascia contributiva diversa ha generato una perdita netta significativa: circa 1.200 euro annui in meno rispetto al regime precedente.

Un equilibrio difficile tra equità fiscale e incentivi al lavoro

La situazione mette in evidenza quanto sia complesso progettare interventi fiscali e contributivi che abbiano effetti equi e proporzionati su tutte le fasce di reddito. La decontribuzione, in sé, rappresenta uno strumento valido per incentivare il lavoro e aumentare la disponibilità economica dei lavoratori. Tuttavia, quando viene applicata in un contesto di revisione delle aliquote fiscali, senza un’analisi d’impatto accurata, può produrre effetti controproducenti.

Ciò che emerge, dunque, è la necessità di un maggiore coordinamento tra le politiche di welfare e quelle fiscali. Ogni modifica al sistema contributivo dovrebbe essere accompagnata da una valutazione attenta delle possibili interazioni con il sistema impositivo, evitando che le misure si neutralizzino a vicenda o, peggio, si trasformino in un danno economico per alcune categorie.

Decontribuzione stipendi: verso un sistema più sostenibile e coerente

Alla luce di questi elementi, si impone una riflessione più ampia sul futuro della decontribuzione come strumento di politica economica. Perché possa realmente svolgere la sua funzione di stimolo ai redditi e all’occupazione, è fondamentale che venga inserita all’interno di un disegno complessivo, che tenga conto delle dinamiche fiscali, previdenziali e distributive.

Anche sul fronte pensionistico, l’adeguamento dell’età in base all’aspettativa di vita richiede un approccio che sappia coniugare sostenibilità finanziaria e giustizia sociale, senza lasciarsi guidare dall’emergenza o da logiche contingenti.

In definitiva, la decontribuzione non è una panacea, ma può essere un tassello importante di una strategia più ampia, se accompagnata da riforme coerenti e da un sistema di monitoraggio attento alle conseguenze concrete per lavoratori e famiglie.

Riassumendo

  • L’aspettativa di vita aumenta, e l’età pensionabile salirà dal 2027.
  • La riforma Fornero prevede l’adeguamento automatico legato alla longevità.
  • La decontribuzione punta ad aumentare il netto in busta, ma non sempre riesce.
  • In alcuni casi, l’aumento salariale spinge in uno scaglione IRPEF più alto.
  • Dipendenti pubblici e redditi medi-bassi risultano penalizzati dalla misura.
  • Serve coordinamento tra politiche fiscali e previdenziali per evitare effetti distorsivi.

Pasquale Pirone

Dottore Commercialista abilitato approda nel 2020 nella redazione di InvestireOggi.it, per la sezione Fisco. E’ giornalista iscritto all’ODG della Campania.
In qualità di redattore coltiva, grazie allo studio e al continuo aggiornamento, la sua passione per la materia fiscale e la scrittura facendone la sua principale attività lavorativa.
Dottore Commercialista abilitato e Consulente per privati e aziende in campo fiscale, ha curato per anni approfondimenti e articoli sulle tematiche fiscali per riviste specializzate del settore.

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