No, il dollaro non sta perdendo il suo status di valuta di riserva mondiale. E a certificarlo sono i dati pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale, secondo cui ancora le riserve valutarie nel pianeta sono denominate in dollari per quasi i due terzi (61,7%), mentre l’euro si deve accontentare del 20,7%. L’apice per la moneta unica venne raggiunto nel 2009 con il 27,7%, mentre la porzione spettante al dollaro all’inizio del millennio superava il 71%. Tuttavia, Cina e Russia, per motivi diversi ai ferri corti da tempo con l’America, stanno segnalando la volontà di sganciarsi dalla eccessiva dipendenza verso il biglietto verde.
L’aspetto più interessante risiede, però, nel dimezzamento della quota riservata ai dollari nelle sue riserve valutarie dal 46% al 23%, a fronte di un’impennata dell’euro nell’ultimo anno dal 22% al 32%. E sia Russia che Cina stanno correndo a comprare oro, la prima raddoppiandone le quantità detenute negli ultimi 5 anni a 2.119,2 tonnellate e la seconda aggiungendone nello stesso frangente qualcosa come 800 tonnellate. Dunque, più oro e meno dollari nelle casse di Pechino e Mosca, con la seconda ad essersi vistosamente spostata anche sull’euro.
Siamo ben lontani dal potere affermare che la moneta unica faccia concorrenza al dollaro sul fronte delle riserve valutarie, ma cosa significherebbe per noi se un giorno accadesse? Basta guardare oggi all’America. La necessità per tutte le banche centrali del mondo di detenere quantità minime di dollari per le transazioni internazionali, specie legate all’acquisto di materie prime, nonché per mostrarsi finanziariamente solide, spinge a una domanda elevata di valuta americana, che ne apprezza i tassi di cambio contro le altre divise.
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E così, l’America, arrivata sotto l’amministrazione Obama a un rapporto debito/pil di circa il 125%, praticamente poco meno alto di quello dell’Italia, ha potuto e può continuare a rifinanziarsi sui mercati senza problemi, a costi relativamente bassi e godendo della massima fiducia degli investitori, oltre che delle agenzie di rating, nonostante lo storico declassamento di S&P dell’agosto 2011. Per contro, paga dazio con esportazioni nettamente minori delle importazioni, un tema centrale della politica trumpiana di questi anni. Perché? Il combinato tra “super dollaro” e bassi tassi riduce la competitività delle imprese americane sui mercati internazionali, spingendo quelle più grosse a delocalizzare la produzione all’estero per vendere direttamente sui mercati di sbocco senza sostenere costi in valuta americana.
E i consumi degli americani, così come gli investimenti delle imprese, si mantengono elevati per via dello scarso incentivo a risparmiare da un lato e dell’abbondanza di capitali (esteri) disponibili dall’altro. Ciò alimenta la domanda interna aggregata, che si traduce in importazioni altrettanto elevate. Questo sarebbe il destino dell’Eurozona, nel caso in cui la moneta unica prendesse un giorno il posto del dollaro: cambio forte e tassi bassi, ergo minori esportazioni e maggiori consumi/investimenti domestici. Per la Germania significherebbe la perdita di un’identità consolidata, la fine del tanto ostentato modello tedesco, fondato sull’export e su una domanda interna relativamente contenuta.
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