Tra poche ore, salvo ormai improbabili sorprese, dalla Cina arriverà la notizia del default di Evergrande. A causa di forti problemi di liquidità, il colosso immobiliare non sarà in grado di onorare il pagamento degli interessi su due bond per complessivi 100 milioni di dollari. Di debiti ne ha per 300 miliardi, tanto che le borse mondiali traballano da giorni per il rischio che molti creditori si trovino in Occidente e che molti titoli di Evergrande siano parte di portafogli di chissà quanti fondi d’investimento, senza che neppure lo sappiamo.
La società ha 200.000 dipendenti, ma l’indotto garantisce altri 3,8 milioni di posti di lavoro. Vanta 1.300 progetti immobiliari in 280 città cinesi e milioni di clienti impauriti di non vedersi consegnate le case per cui hanno pagato in anticipo. Il default sarebbe tutt’altro che indolore sul piano sociale, anche perché evidentemente ad essere esposte verso Evergrande ci sono anche le banche cinesi.
Il mondo teme che la Cina abbia il suo “Lehman Brothers moment”. Probabilmente non sarà così. Questa caduta è voluta proprio dalle autorità cinesi, le quali hanno chiuso i rubinetti della liquidità a Evergrande all’inizio del mese. Da allora, la Borsa di Hong Kong perde il 10%. Le azioni societarie, invece, segnano -84% da inizio anno. Come già scritto in un precedente articolo, la Cina quasi cerca il default del colosso per imporre al mercato la disciplina.
Default Cina, la corsa sfrenata dell’immobiliare
Tutto vero, ma il fallimento di Evergrande non arriva per caso e per certi versi ha origine proprio dal crac di Lehman Brothers. Per reagire alla crisi finanziaria mondiale scatenata nel 2008 dal collasso della banca americana, Pechino varò potenti stimoli monetari. Denaro facile e a basso costo per sostenere progetti immobiliari perlopiù colossali e senza alcuna utilità pratica. Sorsero le cosiddette “città fantasma”, realtà urbane costruite e non abitate per mancanza di domanda.
E, tuttavia, questa corsa dissennata al mattone ha sostenuto e continua a sostenere la crescita dell’economia cinese. Senza, essa ripiegherebbe con ogni probabilità intorno ai livelli occidentali. Insomma, il Dragone smetterebbe di volare. L’atterraggio sarebbe durissimo per le famiglie cinesi, anzitutto, ma con riflessi per l’intera economia mondiale. Se i consumi, ergo le importazioni, si riducessero, a pagarne il prezzo sarebbero numerose realtà aziendali di Europa e Nord America. Pensate ai marchi del lusso o automobilistici, che negli ultimi anni stanno vedendo la Cina come lo sbocco naturale dei loro prodotti, date le immense dimensioni di questo mercato.
Ad ogni modo, entro poche ore il default in Cina segnerà la fine di una lunga era di stabilità finanziaria, pur spesso forzata dalla mano dello stato. Il timore è che ne inizi un’altra molto meno perscrutabile e dai connotati incerti. Detto con onestà, l’Occidente teme che la Cina si occidentalizzi nei suoi difetti. Timori forse esagerati, anche se il problema è reale. L’economia cinese cresce a colpi di investimenti insostenibili. Prima o poi, il conto da pagare dovrà arrivare. E il default imminente di Evergrande può preludere a un collasso sistemico.