Lunedì 6 giugno, il premier britannico Boris Johnson ha superato a stento il voto di sfiducia interno al Partito Conservatore con 211 voti a suo favore e 148 contrari. La rivolta è stata provocata dallo scandalo “Partygate” che ha visto in questi mesi proprio il capo del governo essere accusato di avere organizzato feste a Downing Street durante il lockdown contro il Covid. E così, mentre 67 milioni di sudditi stavano a casa e non potevano neppure recarsi in visita dai parenti, ministri e premier banchettavano in barba alle loro stesse leggi.
Rivolta Tory contro aumento delle tasse
Ma dietro alla rivolta contro Johnson c’è molto alto, soprattutto altro. Il debito pubblico britannico è esploso a causa della pandemia al 104% dall’82% del 2019. L’inflazione è nel frattempo schizzata al 9% di aprile, dato massimo dal 1982. Un po’ sta accadendo ovunque, per cui risulta difficile fare le pulci al governo. Tuttavia, nei mesi scorsi il Cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, ha presentato un piano fiscale di aumento delle tasse del 2% del PIL entro il 2024/2025. Tra le misure previste, l’aumento dell’aliquota sui profitti dal 19% al 25% e dei contributi a carico dei lavoratori dell’1,25%. Quest’ultima dovrebbe costare sui 9 miliardi di sterline all’anno.
E così, le famiglie stanno ritrovandosi strette tra aumento dei prezzi da una parte e aumento delle tasse dall’altra. Non è difficile credere che l’economia britannica sia attesa per quest’anno in crescita ai ritmi più bassi di tutto il G20, tranne la Russia. Dentro al partito cresce la pressione, affinché Johnson si rifaccia a una politica fiscale più in linea con la tradizione thatcheriana. Da quando la Lady di Ferro varcò il portone di Downing Street nel maggio 1979, Tory è diventato sinonimo di basse tasse, libertà di mercato e deregulation.
Tradite le promesse elettorali
Vuoi per necessità, vuoi per l’annacquamento degli insegnamenti di quei decenni, i conservatori stanno smarrendo la “retta via” e adottando un approccio sempre più simile a quello degli avversari laburisti. Non era quanto volessero vedere gli elettori di destra con la Brexit. Johnson aveva promesso che l’uscita dall’Unione Europea sarebbe avvenuta per liberare l’economia dall’iper-burocrazia e le tasse di Bruxelles, non certo per rimpiazzarle con altre made in UK.
Certo, la pandemia è arrivata imprevista e la guerra anche. L’attivismo del premier a favore dell’Ucraina punta proprio a portare a casa un successo immediato e di lungo termine per Londra: legare a sé uno stato europeo diffidente verso la UE per creare una sorta di “Commonwealth” commerciale che lenisca le perdite legate alla Brexit. Non è un caso che Volodymyr Zelensky abbia avvertito la necessità di esternare la sua gioia per il superamento del voto di sfiducia da parte del premier.
Johnson sta anche alzando il tiro sul Protocollo d’Irlanda, consapevole che in questa fase la Commissione sia politicamente debole per mostrare i muscoli. Non che egli sia forte, ma almeno sul punto può tirare ancora un po’ la corda. Fatto sta che deve trovare il modo di affievolire il carovita, dato che il rialzo dei tassi della Banca d’Inghilterra appare “too little, too late” per fermare la corsa dell’inflazione in tempi brevi. Più soffriranno le famiglie, maggiore le chance di essere mandato a casa dal suo stesso partito. Theresa May sopravvisse solamente sei mesi al voto di sfiducia superato nel 2019. E il Regno Unito navigava in acque meno agitate.