I conti dell’INPS continuano a viaggiare in rosso. Non è un mistero che l’ammontare delle prestazioni previdenziali risulti ogni anno nettamente superiore ai contributi incassati dall’ente. Nel 2020, ultimo anno di cui abbiamo un’analisi di Itinerari Previdenziali, le entrate contributive furono complessivamente di 195,4 miliardi, a fronte di una spesa per le pensioni di 234,7 miliardi (al netto della quota GIAS, la gestione assistenziale). Tuttavia, queste cifre risultano falsate dagli effetti della pandemia. Nel 2019, infatti, le entrate contributive erano state di 209,4 miliardi e le prestazioni di 230,25 miliardi.
Scorporando i dati per ciascuna categoria lavorativa, otteniamo che i dipendenti del settore privato versano quasi regolarmente più contributi delle prestazioni previdenziali ricevute. Il saldo risultava positivo di 6,34 miliardi. L’anno seguente, a causa del Covid-19, sprofondava a -8,7 miliardi. I dipendenti pubblici, invece, sono una zavorra per i conti INPS: saldo negativo di 33,65 miliardi. E la tendenza di anno in anno si aggrava. Il numero dei pensionati ex INPDAD aumenta, per cui gli esborsi per le loro pensioni salgono in misura più che proporzionale ai contributi.
Negativo risulta anche il saldo degli artigiani a -3,2 miliardi, mentre i commercianti esitano un +880 milioni. Altri -2,38 miliardi si devono ai coltivatori diretti, mentre i liberi professionisti apportano un contributo positivo di 3,85 miliardi. Molto bene anche i parasubordinati a +7,39 miliardi. Quest’ultima categoria risulta mediamente giovane, trattandosi di fruitori di contratti atipici, sui quali spesso sono versati contributi a fronte di poche o nessuna prestazione previdenziale.
Dipendenti pubblici zavorra per conti INPS
Facendo la somma di tutte le gestioni relative al settore privato (dipendenti e autonomi), otteniamo un saldo per i conti INPS positivo di 12,8 miliardi.
Nel 2020, era pari al 69,43% per i dipendenti pubblici e al 76,22% per quelli privati. In questo secondo caso, il dato risultava in forte crescita dal 47,58% del 1989, mentre per i primi si mostrava sostanzialmente stabile. Cosa significa? I dipendenti pubblici hanno da sempre versato relativamente pochi contributi rispetto alle prestazioni godute. Hanno potuto andare in pensione storicamente prima del resto della popolazione lavorativa. La legge del governo Rumor nel 1973 consentì alle donne del pubblico impiego di andare in pensione con soli 14 anni 6 mesi e 1 giorno, agli uomini con 19 anni 6 mesi e 1 giorno. Infine, ai dipendenti degli enti locali con 24 anni 6 mesi e 1 giorno.
Gli squilibri dei conti INPS attualmente dipendono esclusivamente dall’eredità pesante dell’ex INPDAD, assorbito da ormai più di un decennio. E le probabilità di risanare tale gestione appaiono risibili nel medio-lungo termine. Quei 33-34 miliardi di passivo insistono su un monte retributivo stimato intorno ai 120 miliardi. Praticamente, i dipendenti pubblici dovrebbero pagare il doppio dei contributi per pareggiare i conti. E anche se prendessimo in considerazione una simile ipotesi estrema, a pagare sarebbero le amministrazioni pubbliche, cioè lo stato. In ultima analisi, il conto finale sarebbe dello stesso contribuente. A meno di immaginare di comprimere gli stipendi pubblici, gravandoli di una maggiore contribuzione a carico dei lavoratori. Per le dimensioni richieste ai fini dell’aggiustamento dei conti INPS, sarebbe un’operazione non fattibile sul piano economico e politico.