La precarietà degli insegnanti quanto incide su quello che poi è il reale insegnamento e apprendimento degli studenti che si trovano a cambiare docente ogni anno? La continuità didattica è davvero così importante?
Questa è la vera vergogna. La precarietà – che occorre ricordare non è stata mai combattuta veramente perché conviene allo Stato: un precario non ha diritto alle stesse tutele stipendiali di un docente a tempo indeterminato – ricade essenzialmente sul rapporto di insegnamento-apprendimento, che è qualcosa di molto complesso. Ebbene, da un lato i docenti sono “costretti” a seguire corsi di aggiornamento e perfezionamento (sempre per arricchire agenzie, associazioni e università) in cui si insegna l’importanza della continuità didattica (scontata per chiunque abbia mai messo piede in classe, il rapporto insegnante-allievo è un rapporto appunto che si costruisce nel tempo, come del resto tutte le più importanti relazioni umane), dal punto di vista fattuale – per risparmiare qualche milione di euro – lo stato condanna bambini e giovani a cambiare metodi di apprendimento e relazioni, con grave danno per la loro formazione.
Quali sono i requisiti fondamentali che dovrebbe possedere, a prescindere dall’istruzione, un insegnante? Sono più importanti i valori o l’insegnamento dei programmi ministeriali?
L’insegnante deve essere un professionista e identificare contemporaneamente due obiettivi: rendere più intelligente la propria platea (al di là dei contenuti), cioè esercitare alla complessità e alla bellezza della risoluzione della complessità; rendere più colte le persone affinché abbiano più strumenti “contenutistici” per affrontare il mondo. Il primo punto, comunque, è più importante.
Un tempo si diceva che gli insegnanti erano maestri di vita, pensi che oggi sia ancora così?
Non lo è più. La figura docente è squalificata: nella retorica quotidiana, è colui che ha tre mesi di vacanza e non fa nulla dalla mattina alla sera. Ruba lo stipendio, cerca di truffare con la legge 104, è essenzialmente un fallito morto di fame (i figli ignoranti della ricca borghesia presso i quali servo come insegnante privato hanno mediamente questa visione) e così via.
Cosa cambieresti nel mondo della scuola attuale?
Tutto; troppo complesso da delineare in un’intervista. Ma il principio guida sarebbe il seguente: eliminare completamente la mentalità aziendalistica che sta guidando le ultime riforme. La scuola non è un’agenzia che offre un servizio “soddisfatti o rimborsati”; il docente è un professionista che va rispettato da famiglie e dirigenti scolastici; poi, aggiungerei: limitazione dei poteri del dirigente scolastico; attenzione alla relazione formativa, al di fuori delle esigenze immediate della produzione, dunque meno allievi per classe e più docenti assunti; cancellazione dell’alternanza scuola-lavoro, perché a scuola si va per apprendere a essere “umani” non a essere “lavoratori” e così via. Sono solo le prime cose che mi vengono in mente.
Cosa cambieresti nei metodi per diventare insegnante?
La questione non è tanto il metodo, ma la normalizzazione. Io sono per il concorso pubblico, ma boccio ogni forma di tirocinio mal pagato: un lavoratore ha diritto alla giusta paga, anche all’inizio della sua esperienza. Ma sono soprattutto per l’accrescimento del numero delle cattedre, perché, nonostante i proclami sull’importanza dell’istituzione scolastica, molti docenti hanno a che fare con circa 30 allievi in classe – mi si dovrebbe spiegare come si può costruire una vera relazione di insegnamento-apprendimento in una condizione del genere; come si può personalizzare sull’allievo l’intervento didattico e così via.
A cura di Patrizia Del Pidio
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