Dollari sotto il materasso in Venezuela e le banche aggirano i divieti del governo

Pagamenti in dollari sempre più diffusi in Venezuela per combattere gli effetti dell'iperinflazione. Ma non si sa più dove metterli, perché le banche ufficialmente non possono accettarli.
5 anni fa
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Il Venezuela è uscito dall’iperinflazione, che per definizione si ha quando i prezzi al consumo crescono al ritmo mensile di almeno il 50%. In ottobre, stando all’Assemblea Nazionale, si erano fermati al 20,7%, pari a un dato cumulato annuo del 4.035%. Resta sempre l’inflazione più alta al mondo, ma almeno si è usciti fuori dalla spirale esplosiva dei due anni precedenti. Il miglioramento sta avvenendo per effetto di alcune decisioni del governo, varate all’inizio dello scorso anno, tra cui la restrizione al credito bancario erogabile per diminuire la massa monetaria in circolazione e l’apertura alla libera circolazione dei dollari, pur con tutte le ambiguità tipiche del regime “chavista” di Nicolas Maduro.

Il presidente non vuole nemmeno sentire parlare di “dollarizzazione” del Venezuela sugli esempi di Ecuador e San Salvador, ma a novembre ha definito la divisa americana “una benedizione divina”. Sì, perché egli sa che se l’inflazione nel paese sta diminuendo, è essenzialmente grazie al fatto che ormai commercianti, imprese e lavoratori fissano perlopiù i prezzi in dollari e così possono tenerli più stabili. Si consideri che un dollaro al mercato nero equivale a circa 67.500 bolivares, nonostante nell’agosto del 2018 furono emesse nuove banconote con 5 zero in meno. Nel corso del 2019, la valuta locale ha perso il 99%.

Secondo l’istituto indipendente Ecoanalitica, agli inizi di dicembre circolavano in Venezuela 2,7 miliardi di dollari, responsabili ormai di oltre la metà delle transazioni effettuate. L’aspetto più interessante di questo dato è che esso varrebbe 3 volte l’ammontare di tutta la liquidità espressa in bolivares, sommata ai conti correnti e deposito delle banche. In pratica, ormai il dollaro la fa da padrone nel paese andino, sebbene non tutti vi abbiano accesso. Chi non vi riesce, magari perché lavora per un’impresa senza relazioni con l’estero, è costretto a fuggire. Lo hanno fatto in 1,5 milioni nel 2019, circa mezzo milione in più dell’anno prima, portando l’esodo totale negli ultimi anni a quota 5 milioni.

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Dollari nascosti sotto il materasso o in banca

Il problema, però, ce l’ha anche chi possiede i dollari. Lo stato non li riconosce come valuta utile per effettuare i pagamenti, ma nemmeno li sta vietando esplicitamente. E alle banche non viene consentito accettare dollari per l’apertura di un conto corrente o deposito, per cui si rimane in un’ampia zona grigia, caratterizzata dai dubbi su come utilizzare al meglio la valuta americana e, soprattutto, su dove depositarla. Molti ammassano i biglietti verdi sotto il materasso, come se fossimo tornati agli inizi del Novecento. Molti altri, però, li porterebbero in banca, ma depositandoli presso le cassette di sicurezza. All’atto del loro ritiro, gli istituti applicherebbero un tasso del 2%.

Ufficialmente, nessuna banca in Venezuela conferma l’esistenza di tale pratica, ma nei fatti è così che aggirerebbero i divieti del governo, il quale dal canto suo finge di non vedere, comprendendo che questo sia l’unico modo che ha per evitare che 30 milioni di abitanti patiscano la fame più di quanto non l’abbiano sofferta negli ultimi anni. Servirebbe il coraggio di abbandonare ufficialmente l’inutile bolivar, utilizzato dagli emigranti all’estero persino per costruire borsette sostanzialmente a costo zero, non valendo le banconote in esso denominate proprio nulla. Le riserve valutarie liquide del Venezuela ammontano a 7,5 miliardi di dollari e non accennano a risalire anche per via delle sanzioni finanziarie americane.

La situazione non è tornata certo alla normalità, dato che ai ritmi di ottobre i prezzi crescono ancora di circa una quarantina di volte all’anno. Secondo il monitoraggio di Bloomberg, un caffè a inizio 2019 costava sui 450 bolivares, mentre alla fine di dicembre intorno ai 30.000.

Certo, negli ultimi mesi dell’anno è iniziata a risalire la produzione di petrolio, un fatto che porterebbe nelle casse della compagnia petrolifera statale più dollari con le esportazioni, accelerando l’uscita dal tunnel dei prezzi pazzi. Ma è troppo presto per tirare le somme. Il 2020 è iniziato con l’esplosione delle tensioni tra USA e Iran. Chissà che presto non tocchi anche a Maduro testare la pazienza di Trump.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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