Non sappiamo se il 2 aprile sarà davvero ricordato come il “Giorno della Liberazione” negli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump evoca sin dall’insediamento espressioni bibliche con riferimento ai propri provvedimenti. Probabile che i dazi faranno male ai consumatori americani, così come che tante aziende decideranno di produrre in loco per sfuggire agli aumenti e continuare a vendere a condizioni favorevoli sul principale mercato di sbocco nel mondo. Invece, l’Unione Europea può già mettere per iscritto che quella data per sé avrà una connotazione negativa. Ed è assai probabile che segnerà la fine del Patto di stabilità. Ne ha invocato già la revisione anche la premier Giorgia Meloni, nel corso di un’intervista rilasciata al Tg1 di giovedì sera.
Dazi shock per economia europea
Che l’aria sarebbe cambiata, lo si era capito con la vittoria di Trump alle elezioni di novembre. Il tycoon aveva dichiarato come un mantra durante la campagna elettorale che non avrebbe più garantito la sicurezza all’Europa senza un suo contributo finanziario. In soldoni, i governi del Vecchio Continente dovranno aumentare la spesa militare almeno al 2% del Pil, come da accordo NATO del 2014. Obiettivo già rivisto al 3,5% dall’UE per tendere ai piani di riarmo entro pochi anni. L’incremento delle spese per la difesa fino all’1,5% del Pil sarà scorporato dal calcolo ai fini del Patto di stabilità.
Bruxelles sperava che sarebbe bastato a soddisfare Trump. Non aveva immaginato del tutto che la sua amministrazione avrebbe fatto sul serio sui dazi, ponendo fine a decenni di libero scambio. Il maxi aumento dei dazi al 20% per le merci europee (25% su auto, acciaio e alluminio) è uno shock economico notevole per l’economia continentale orientata alle esportazioni. E questo cambia radicalmente l’impostazione di politica economica sin qui seguita.
Servirà fare meno affidamento sulla domanda estera e più su quella interna. Avanti tutta con consumi e investimenti. La Germania lo ha capito, varando un maxi-piano da 1.000 miliardi di euro in deficit entro 10 anni.
Nord Europa non più ostile ad Eurobond
I bilanci tedeschi possono permettersi il ricorso al debito, negli altri stati comunitari la situazione è diversa. E questo porta alla domanda delle domande: esiste ancora il Patto di stabilità? Già sospeso durante il Covid, reintrodotto in versione rivisitata e pasticciata dallo scorso anno e sospeso nuovamente per l’aumento delle spese militari, non si capisce più quale futuro possa avere. Se gli stati nazionali dovranno sostenere la domanda interna, le regole fiscali stringenti non saranno più funzionali a tale intento. D’altra parte, i mercati finanziari non sembrano intenzionati ad avallare ulteriori emissioni di debiti per favorire la ripresa.
Come se ne esce da questo vicolo cieco? Per qualcuno – Mario Draghi – la soluzione sarebbero gli Eurobond, cioè le emissioni di debito comune. Le resistenze nel Nord Europa sono cadute. Scandinavi e baltici, un tempo col ditino alzato verso i colleghi spendaccioni del Sud, adesso hanno paura di essere invasi dai russi.
E quando scatta l’emergenza, le teorie economiche vanno a farsi benedire. All’improvviso neanche gli italiani sembrano più così male. Saranno pure pessimi gestori delle finanze statali, ma perlomeno non occupano i territori di nessuno. E poiché il loro sostegno serve per placare i bollori putiniani, che si faccia pure debito insieme e “scurdamoce o passato”.
Patto di stabilità incerto
Non sarà facile varare gli Eurobond senza entrate comuni. L’UE è una scatola vuota, come se emettessimo una fattura a chi sappiamo essere un prestanome formalmente nullatenente. Chissà se la minaccia esistenziale farà gettare il cuore oltre l’ostacolo! Per il momento possiamo limitarci ad affermare che il Patto di stabilità esiste e non esiste. Nessuno lo ha abolito, né si ripromette di farlo. Ma nessuno si sente di rispettarlo. Cesserà di esistere per disapplicazione. Come quella legge italiana che punisce chi allontana in maniera brusca i piccioni.
giuseppe.timpone@investireoggi.it