Per l’Unione Europea è arrivato il momento del “reality check” e non di certo inatteso. La vittoria netta di Donald Trump alle elezioni negli Stati Uniti pone Bruxelles dinnanzi alla necessità di reagire per non subire un declino irreversibile sul piano economico e geopolitico. A farsi interprete di questo sentimento è stato nei giorni scorsi Mario Draghi. Non è la prima volta che l’ex premier italiano e già governatore alla Banca Centrale Europea usa toni quasi apocalittici sul futuro dell’Unione Europea.
Il Draghi-pensiero
Proseguendo nell’analisi, Draghi ha spiegato che l’amministrazione Trump non si limiterà a difendere le vecchie industrie a colpi di dazi, ma anche a puntare sulle nuove basate sulle tecnologie. C’è il rischio, ha aggiunto, che su di esse l’Europa resti ancora più indietro di quanto non lo sia oggi rispetto agli Stati Uniti. Non tutto sarà negativo, perché l’italiano ritiene che il confronto possa far emergere uno spirito unitario a Bruxelles, superando gli egoismi nazionali.
Rivolta contro élite in Occidente
Draghi sembra avere grosso modo ragione sul piano dell’analisi, ma ritenere che egli sia la risposta europea al duo Trump-Musk, come parte della stampa nazionale spiega in questi giorni, è l’ennesimo errore concettuale. Se c’è un fatto emerso con la vittoria di Trump è la rivolta dei cittadini contro le élite. L’idea che vi sia un nucleo di persone depositarie delle verità e che cerca di imporle a tutti, è stata respinta con sdegna persino dalle minoranze che si pretende di tutelare con l’ideologia veicolata proprio dall’establishment.
Ora, la virtù di Draghi consiste nell’essere un uomo capace di avere una visione lungimirante delle cose. Anche quando salvò l’euro con il celeberrimo “whatever it takes“, capì che il rischio di essere “sfiduciato” dalla politica tedesca fosse di gran lunga inferiore a quello di vedere scomparire la moneta unica.
Tecnocrazia al tramonto
Draghi è espressione della tecnocrazia, termine che in sé non ha alcuna accezione negativa. I tecnici sono utili alla politica per assumere decisioni ponderate. Ma non possono pretendere di sostituirvisi. Nell’Unione Europea degli anni passati lo hanno fatto spesso, più per carenza di politica che per un loro reale strapotere. I risultati sono sotto i nostri occhi. Un’area in cui abitano 450 milioni di persone e seconda economia mondiale con un Pil atteso per quest’anno a 19.400 miliardi di dollari non può pensare di delegare ai tecnocrati il proprio destino. In un confronto con i grandi della Terra – Trump negli Stati Uniti, Xi Jinping in Cina, Narendra Modi in India e Vladimir Putin in Russia – non saremmo credibili nell’inviare una personalità senza alcuna investitura popolare. A nome di chi e cosa parlerebbe?
E’ arrivato il momento per la politica europea di prendersi gli spazi che le spettano. Questioni cruciali come globalizzazione, geopolitica, transizione energetica, politica industriale e nuovo ordine mondiale non sono dossier per burocrati. Se l’Unione Europea versa in questo stato malconcio, è perché da trenta anni ha affidato sé stessa alla tecnocrazia nella speranza di sfuggire alle proprie responsabilità e di celare le divisioni interne, che sono profonde e persino strutturali. I danni hanno di gran lunga superato i benefici. Siamo diventati irrilevanti nel mondo, malgrado i numeri sopra accennati.
Draghi non risposta credibile UE a Trump
L’errore di Draghi è stato sempre nel pensare che la crisi europea possa cessare con una gestione ancora più centralistica (cosiddetto “super stato“) e affidata ai tecnocrati senza tessere di partito e responsabilità di governo. Uomini e donne che non intendono “sporcarsi” con la quotidianità dell’amministrare e che sperano che la politica debole, vile, latitante e carente di autostima si rivolga a loro come un’azienda che produce in outsourcing. Con le elezioni europee di giugno e ancora di più con il ritorno di Trump, quel ciclo sembra finito. Prima ce ne capacitiamo e più velocemente sapremo andare avanti.